Monday, October 28, 2024

28/2010

Photo: Riccardo Sepe Visconti
Text: Silvia Buchner

 

Dal monte Cotto a S. Angelo: case abbarbicate alle colline, le une sulle altre in un disordine armonico nonostante tutto, ingentilito da minuscoli giardini e orti segreti, ai quali l’anima legata alla terra degli ischitani non riesce (per fortuna!) a rinunciare, gli immancabili agrumeti sempre rigogliosi che occhieggiano oltre i muri alti. A ben pensarci, queste due località che si trovano agli estremi della baia più bella dell’isola, quella dei Maronti, hanno dei punti in comune nella loro diversità, più rustico e vicino alle tradizioni l’abitato che sorge sopra Testaccio; arricchito di villette, alberghi, parchi termali, quello del centro di S. Angelo che più di tutti ha scelto di strizzare l’occhio alla ‘mondanità’. Percorrerli a piedi entrambi significa, una volta di più, prendere atto che la bellezza di Ischia è data proprio dalla grande varietà di paesaggi, di dettagli architettonici e naturalistici che mutano da un chilometro all’altro. Noi di chilometri ne abbiamo percorsi circa sei, per raccontare ai lettori di Ischiacity un volto sicuramente meno conosciuto dei Maronti, in questo itinerario ideato per noi dalla guida escursionistica Assunta Calise. Il tracciato non è breve ed è caratterizzato da alcune salite di un certo impegno: in cambio restituisce panorami speciali, caratterizzati da grande linearità e talora addirittura rarefatti. Siamo, infatti, nel versante meridionale dell’isola, quello che affaccia sul mare aperto, diversamente da quello settentrionale che guarda verso il golfo di Napoli, ‘affollato’ di isole, penisole e con l’orizzonte chiuso dai Campi Flegrei. Nel nostro caso, invece, se si fa eccezione per la sagoma lontana dell’isola di Capri, l’orizzonte è libero, solo mare e cielo. Noioso? Proprio no. In tal modo, infatti, si può cogliere appieno la mutevolezza cangiante della superficie liquida in perpetuo movimento, immenso specchio su cui la luce si riflette amplificando ad ogni istante la propria forza, a contrasto il cielo azzurrissimo. Di questo abbiamo potuto godere nel giorno, assolato e tranquillo, della nostra escursione. Tuttavia, mentre non si riesce a staccare lo sguardo dal movimento ipnotico delle scaglie brillanti del mare, non si può fare a meno di immaginare che visione debba esserci da lassù quando lo scirocco flagella la costa dei Maronti… Lassù significano i 300 metri circa di altezza della collina di monte Cotto: è uno dei Sentieri della Lucertola, i percorsi naturalistici realizzati dal comune di Barano per valorizzare il suo notevole patrimonio paesaggistico. Qui, come nelle altre zone coinvolte da questo intelligente progetto che prosegue ormai da molti anni, l’Amministrazione provvede alla manutenzione dei sentieri (il che significa, e non è poco, anche un più assiduo monitoraggio delle loro condizioni) così da consentire a turisti e ischitani di fruire di luoghi bellissimi: decisamente un modo intelligente per proporre un aspetto diverso dell’isola e quindi un modo diverso di fare turismo. Se anche gli altri Comuni – che hanno tutti un entroterra che merita di essere esplorato – scegliessero di percorrere questa strada potrebbe nascere un circuito interisolano destinato al trekking di grande interesse. Abbiamo raggiunto la nostra prima tappa partendo dalla piazza di Testaccio, attraverso via Astiere, una stradina pedonale, linda, quasi che la gente se ne prenda cura come di un pezzo della propria casa. Ai lati, piccoli cortili con vecchi lavatoi, muretti con placidi gatti sdraiati al sole e abitazioni digradanti sul fianco della collina,candide di calce, che guardano verso Testaccio con le sue chiese e Barano, mentre più in lontananza si individuano la costa Sparaina, il monte Trippodi, ed anche un angolo del Montagnone e la punta dell’Epomeo. Lasciate le ultime case, si prosegue brevemente fra querce e castagni fino a girare sull’altro versante del monte Cotto. Da qui lo sguardo arriva libero fino a punta S. Pancrazio da una parte, ma soprattutto può aprirsi completamente alla visione della baia dei Maronti, su cui domina il paese di Testaccio. In fondo, dal lato opposto, il promontorio di S. Angelo, con l’inconfondibile abitato multicolore ai suoi piedi. Dove le case di Testaccio sono più fitte spicca, rivolta a scrutare il mare verso sud, una torre quadrata, oggi destinata a museo comunale, qualche traccia di un’altra si intravede a mezza costa: erano indispensabili per avvistare le navi saracene e consentire quindi alla popolazione di mettersi in salvo dalle sanguinose scorrerie che per secoli devastarono le coste e le isole dell’Italia centrale e meridionale. E tuttavia, la storia documenta il tributo pagato da questo borgo tutto proteso sulla baia da cui veniva il pericolo mortale. Infatti, il 22 giugno 1544 subì un terribile attacco notturno del pirata e ammiraglio della flotta ottomana Khaireddin detto il Barbarossa, sembra originario dell’isola greca di Lesbo ma convertitosi alla religione musulmana. Un’interessantissima annotazione documentaria lasciata dal parroco che reggeva la chiesa di S. Giorgio ricorda come il “Barbarusso”, giunto con 134 navi, si portò via 75 persone e otto anni prima ne aveva prese altre 22. E sembra che appartenessero a strutture di avvistamento e forse di difesa (attraverso l’uso di cannoni che vi erano installati) risalenti ad epoca molto più recente, anche i bassi muri circolari che emergono dalla vegetazione incolta esattamente sulla sommità del monte Cotto. Questo cocuzzolo grande come un fazzoletto riserva anche un’altra sorpresa: da qui si ha la migliore visuale delle cave che modellano le colline sovrastanti i Maronti, definendo un paesaggio molto caratteristico. Le più celebri sono Nitrodi ed Olmitello che ad un certo punto si uniscono, poi cava Terzana, oltre Cava Scura e cava dell’Acquara, e poi quelle più piccole che soltanto chi abita qui conosce per nome, tutte solcano in maniera cadenzata il versante, molto spesso conservando ancora una vegetazione selvaggia ed impenetrabile che si alterna alla roccia nuda. Proprio la caratteristica friabilità di questo materiale roccioso ha fatto sì che, nonostante la fame di nuove superfici su cui realizzare centri abitati, questo paesaggio si sia preservato. Non si tratta, infatti, di luoghi in cui si può costruire ed abitare in sicurezza, e per ampi tratti l’unica traccia visibile dell’uomo sono i piccoli terrazzamenti coltivati a vigneto e qualche cantina e cellaio scavati nel tenerissimo ‘maschione’, come si chiama localmente la roccia. Tornati indietro a Testaccio, la passeggiata prosegue attraverso la viuzza che si addentra nel cuore dell’abitato più antico – quello raccolto intorno alla torre di cui abbiamo detto prima e alla chiesa di S. Giorgio – e che si biforca all’altezza della chiesetta di S. Maria di Costantinopoli, con il nome di via Corafà. Sarà una discesa comoda e piacevole, lungo una strada che intorno al 1748 fu fatta costruire dal generale Giorgio Corafà. Maresciallo della Marina Borbonica, soggiornava a Testaccio per curarsi presso un sudatorio della zona, cioè un punto in cui dalla roccia fuoriusciva aria caldissima ma asciutta, perfetta per lenire i dolori articolari. Il munifico generale, come ricorda ancora un’iscrizione su una grande lastra in marmo affissa al centro del paese, oltre alla strada pavimentata con gradini in pietra, fece realizzare a proprie spese anche una serie di ambienti in cui i malati potessero più comodamente usufruire delle cure e fece piantare lungo la nuova via 150 piante di gelso, importanti perché le foglie si utilizzavano per nutrire i bachi da seta, che potevano così essere allevati e poi venduti dalla popolazione locale. Corafà si occupò, inoltre, di ripristinare le fonti di Olmitello e Cava Scura, seppellite da una frana. Se nel primo tratto la presenza di numerose ville ha modernizzato molto i luoghi, nella parte finale si cammina circondati solo da macchia mediterranea – alaterno, mirto, erica, corbezzolo, lentisco, artemisia marittima – e silenzio, fino a giungere alla spiaggia del Maronti. La più calda dell’isola: per il sole che la rende piacevole anche in pieno inverno, per le acque termali che sgorgano nelle colline alle sue spalle. Dopo aver percorso sulla spiaggia solo un breve tratto, fino alla foce della cava dell’Olmitello, si imbocca qui un sentiero in salita che si arrampica fino a mezza costa. Attraversando campagne ancora ben curate ma anche spazi incolti molto ampi, a volte nascosto fra muretti, assecondando necessariamente l’alternarsi di alture e valloni che caratterizza il paesaggio delle cave dei Maronti, questo sentiero costituisce un modo sicuramente inedito di raggiungere S. Angelo. Dopo la ripida discesa e la successiva risalita nell’impressionante vallone di Cava Scura – incassato profondamente nelle pareti alte e a strapiombo, dove custodisce le sue fonti bollenti – si esce di nuovo nella luce: i passi si susseguono lungo un nastro di terra chiara, che rimanda più forte il riverbero del sole anche se siamo in autunno, e ritorna il senso di essenzialità che comunica questo paesaggio. Si cammina, infatti, stretti fra la collina in cui il sentiero è tagliato – coperta da una distesa di cannucce, la tipica vegetazione spontanea che va a sostituire le coltivazioni quando i terreni vengono abbandonati – e la parete che scende a precipizio, mostrando ai nostri piedi la spiaggia e la distesa marina. L’ingresso a S. Angelo è caratterizzato dalle onnipresenti acque termali cui attingono una miriade di pensioncine a conduzione familiare, alberghetti e stabilimenti, c’è chi vanta addirittura di possedere ambienti scavati nella roccia viva risalenti ad epoca romana (su questo qualche dubbio lo abbiamo, benché sia sicuramente suggestiva l’idea). Sembra di essere in un paese straniero, scritte di informazione e pubblicitarie di ogni tipo sono in tedesco e ci ricordano che praticamente l’intera economia del turismo in questa parte dell’isola (se si escludono i mesi di luglio ed agosto) ha felicemente prosperato per molti decenni grazie ad un pubblico di turisti di lingua tedesca appunto, che veniva qui a cercare il sole anche d’inverno e che amava i sentieri nascosti, proprio come il nostro. Non è casuale il fatto che durante l’escursione abbiamo incontrato, ‘armati’ di zainetti e scarponcini e di un saluto sempre gentile, unicamente persone di lingua tedesca. Il dramma è che oggi questa clientela si è ridotta al lumicino (dagli inizi del 2000 l’isola d’Ischia ha perso nel complesso il 70% di presenze turistiche tedesche, scese da un milione e mezzo a circa 400mila!), e gli imprenditori del turismo – che siano essi in attività da qualche generazione o nati da pochi anni – si ritrovano a vivere una crisi epocale. Sicuramente, l’offerta ricettiva e di servizi mirata sul turismo d’Oltralpe è troppa rispetto all’attuale domanda, quindi è giusto chiedersi: che fine farà una parte di queste attività nel momento in cui non c’è più un pubblico sufficiente a soddisfare tutti? Idealmente, vogliamo concludere la passeggiata sul belvedere che si apre proprio di fronte al promontorio di S. Angelo, oggi dominio incontrastato della macchia mediterranea, anche se vi è ancora qualche piccolo appezzamento di terreno che viene coltivato. Il nome con cui lo chiamano i santangiolesi, la Torre, conserva il ricordo della costruzione di avvistamento e difesa che sorgeva anche qui come in altri luoghi prominenti dell’isola, indispensabile per riuscire ad individuare prima possibile le navi saracene in arrivo; ma agli inizi dell’800, un cannoneggiamento degli Inglesi, che si battevano per restaurare il governo dei Borbone contro Gioacchino Murat, che per un decennio regnò a Napoli, sancì la distruzione del presidio di S. Angelo. Ai piedi della Torre, la spiaggia tornata dopo la parentesi estiva a essere rimessaggio per le barche, i piccoli pescherecci ormeggiati alla scogliera, una manciata di muri colorati affastellati senza soluzione di continuità, definiscono un paesaggio cui non manca niente per emozionare. Quercia Di questo albero è utilizzabile ogni parte: le ghiande come cibo per i maiali, il legno, molto duro e resistente all’acqua, un tempo serviva a costruire lo scafo di navi di prestigio, e tuttora vi si realizzano botti per invecchiare il cognac cui conferisce il tipico aroma, e mobili di elevata qualità; il tannino contenuto nella corteccia entra nella concia della pelle. Felce La felce dolce si incontra comunemente in luoghi ombrosi ed umidi, abbarbicata ai muri. E’ chiamata anche falsa liquirizia, infatti le sottili radici ne ricordano il sapore. Si usano per preparare decotti: una volta estratto dal terreno e pulito esternamente, il rizoma si taglia in pezzetti e si lascia bollire in acqua. E’ indicato sia per chi ha problemi digestivi, sia – usando il decotto come gargarismo – per le proprietà antinfiammatorie ed espettoranti contro mal di gola e tosse. Aloe Utilizzata fin dall’antichità per le sue proprietà curative, oggi l’aloe è stata studiata a fondo e si sono scoperte le ragioni della sua fama plurisecolare. Contiene, infatti, circa cento principi attivi fra cui numerose vitamine, oligoelementi, aminoacidi che combinati fra loro ne fanno un potente disintossicante e stimolante del sistema immunitario, ha inoltre proprietà antinfiammatorie e antibatteriche e favorisce la rigenerazione dei tessuti. Parietaria I nomi popolari di questa pianta diffusissima sono ‘vetriola’ perché si usava per pulire le bottiglie a causa della peluria che la ricopre ed ‘erba murale’ perché i vecchi muri sono uno dei suoi habitat ideali. Si usa come pianta officinale, applicando le foglie triturate sulle contusioni e come diuretico, mentre in cucina si prepara un’ottima minestra di ortica e parietaria.