Friday, November 22, 2024

30/2011

Photo: Romolo Tavani
Text: Silvia Buchner

 

Basta imboccare la stradina giusta, a pochi passi dalla brulicante piazzetta di Panza, per entrare in un’altra dimensione. Si lascia l’asfalto per la terra battuta, poi per il frusciante tappeto di foglie del bosco, infine per le scabre rocce che sono la meta finale della passeggiata. Dimenticate le villette con i loro giardini sgargianti di petunie – lo scivolo di plastica – il barbecue portatile, per un paesaggio di ‘parracine’ ombreggiate da alberi antichi come olivi e fichi, piccoli frutteti che prosperano protetti dal vento dentro i valloni, ampi terrazzamenti popolati da canne, felci, erbe spontanee. Fino ad un tempo più o meno recente lì c’erano vigneti: il vigneto che ad Ischia arrivava dappertutto, sulle colline più alte, lungo le pareti più impervie, nelle conche più nascoste… Ma oggi i costi elevati, la fatica che comporta, i mutamenti sociali e culturali hanno fatto perdere interesse per il mondo della campagna, e così i terrazzi abbandonati rimangono a testimonianza della civiltà contadina che ha impregnato profondamente l’isola per secoli e secoli. E, a dispetto di tutto, continua a impregnare l’anima di una parte dei suoi abitanti. Ci sono, infatti, sempre più ischitani che si voltano a guardare indietro, al mondo che era dei loro genitori e nonni, e scopre che a quel mondo sentono ancora di appartenere, che vogliono ancora camminare sui sentieri polverosi calcinati dal sole, arrampicarsi a cercare panorami diversi dal consueto, andare al mare in baie sperdute, godersi il profumo del bosco. Fra questi c’è sicuramente il gruppo della Proloco Panza che ha lavorato duramente per mesi, ogni domenica mattina, per riconquistare un itinerario nella natura ischitana, che altrimenti sarebbe stato irrimediabilmente inghiottito dai rovi, precludendo la possibilità di raggiungere luoghi davvero notevoli. Li abbiamo incontrati all’opera con zappa, ‘marrazzo’, falciaerba, e soprattutto la forza delle loro braccia, mentre realizzavano la parte finale del percorso, quella più spettacolare che conduce alla baia della Pelara. E’ necessario camminare per circa tre quarti d’ora dal centro abitato per arrivare fin qui: si prende la via che conduce alla spiaggia di Sorgeto, ma dopo poche centinaia di metri si devia a destra, seguendo le frecce e si procede ancora brevemente, fino a un bivio appena accennato. La stradina che scende ripida, sempre a destra, conduce appunto alla nostra destinazione. Il percorso è piacevolmente fresco finché si cammina attraverso la folta macchia di querce, lecci, corbezzoli ed eriche, ma il tratto più bello è l’ultimo, quando si esce alla luce del sole e si corre rapidamente verso il mare. In questo tratto il suolo è sdrucciolevole e in forte pendenza e, per quanto il lavoro dei volontari comprenda anche la realizzazione di gradini in legno e di un corrimano (tutto grazie a contributi volontari dei componenti delle Pro Loco e ai materiali ricevuti in regalo da aziende della zona), è necessario indossare scarpe adatte, possibilmente da trekking e, in ogni caso, essere molto prudenti. Si cammina nel letto di uno dei tanti canaloni che percorrono il versante sud-occidentale e meridionale dell’isola d’Ischia: quello della Pelara si tuffa a mare e custodisce un paesaggio che si è conservato miracolosamente intatto. La piccolissima valle è coperta da una vegetazione estremamente variegata che prospera fra queste pietre aspre. Assunta Calise, la guida escursionistica che come di consueto ci ha accompagnato, ha contato alla fine oltre 35 piante diverse, e sicuramente alcune ci sono sfuggite. Quindi, venite a scoprire la Pelara in primavera – al massimo entro l’inizio di giugno – perché dopo il sole cocente brucerà tutto. Basta pochissimo terreno, addirittura una roccia più tenera e subito le tenaci radici penetrano e attecchiscono: una pioggia, un po’ di caldo e si crea un tappeto multicolore in cui si alternano piante più evidenti come elicrisi, diverse specie di ginestre, garofanini rosa, gli ombrelli bianchi delle carote selvatiche, le sfere violette dell’aglio rotondo, i cespugli argentei dell’assenzio, il cisto rosso con i suoi fiori fucsia, che prospera nelle zone dove sono stati appiccati incendi, perché il fuoco favorisce la propagazione dei semi, ad altre minuscole e che proprio per questo sorprendono per la loro vitalità. In particolare, alla Pelara abbiamo visto lo “statice inarimensis gus”, piantina dai piccoli fiori azzurri riconosciuta e battezzata dedicandola appunto a Ischia dal botanico di corte dei Borbone, Giovanni Gussone alla metà dell’Ottocento e il “sedum litoreum gus” una minuscola pianta succulenta che vive direttamente sulla pietra. Entrambe sono caratteristiche dell’ambiente ischitano e sono assai rare altrove. E ancora, lo spazzaforno i cui rami robusti si usavano per farne delle corde ma anche, inzuppati di acqua zuccherata, si appendevano alle tende per scacciare le mosche, le violacciocche, le deliziose campanelle del convolvolo. Al fondo della baia, il mare si incontra con la terra, sbatte sugli scogli e sulle rocce scure che creano ai lati due quinte imponenti, prima di immergersi in acqua. Siamo nel regno dei gabbiani, che volteggiano senza fatica alcuna, scegliendo per il loro riposo i picchi più alti e inarrivabili. La conformazione geografica di questo versante dell’isola, che si presenta appunto solcato da decine di canaloni, tracciati nella tenera roccia che caratterizza la zona dall’incessante scorrere dell’acqua piovana, offre una serie di promontori e rientranze, che talvolta divengono vere baie, che meritano di essere scoperte tutte. In particolare, stando nella baia della Pelara, se si alza lo sguardo alla propria sinistra, verso oriente, si incontra il fianco di una ripida collina che termina in una punta, oltre la quale ci sarà un’altra bellissima baia, sempre racchiusa fra due promontori. Ebbene, essa si chiama monte di Panza, ed è stata già oggetto di riqualificazione, sempre da parte della Proloco. Tornando, quindi, sui propri passi, e ripercorrendo a ritroso la valle della Pelara, si giunge nuovamente al bivio: da qui, vale, quindi, la pena di proseguire attraverso il viottolo sterrato (sempre seguendo le chiare indicazioni). Un paio di curve definite da bellissime ‘parracine’, una breve salita ed ecco la sorpresa: appare davanti a noi, placido, bellissimo, al termine della lingua di sabbia che lo unisce alla terra, il promontorio di S. Angelo. Tutto intorno, mare azzurrissimo. Siamo sul dorso del monte di Panza: percorretelo fino alla fine, attraversa piccolissimi fazzoletti coltivati, definito da bassi muretti sorretti anche da piante di agave e dominio incontrastato, anch’esso, della rigogliosa quanto fragile fioritura primaverile. Questo luogo, infatti, è molto aperto, esposto al vento caldo del Sud, al sole, quindi già all’inizio dell’estate tutto appare bruciato dal caldo implacabile. In realtà, la vegetazione più bella e delicata, in parte uguale a quella incontrata alla Pelara, ha già compiuto il suo ciclo vitale e il prossimo anno la ritroveremo ancora qui. Anche se questo luogo è frequentemente attaccato dagli incendi: tanto più quindi, attività come quella della Proloco Panza che ha ripulito i sentieri, li ha recuperati all’abbandono, ha fatto di questo luogo un bellissimo itinerario naturalistico è meritevole di ogni apprezzamento. Camminando sul dorso della collina fino alla punta, che chiamano Capo Negro, vengono quasi le vertigini. Lo sguardo spazia libero: di fronte il mare aperto e, in basso, le due baie separate dal monte di Panza. A destra, verso ovest, la Pelara dove eravamo poco prima, a sinistra, verso est, la spiaggia di Sorgeto, chiusa da punta Chiarito. Lo sguardo non può fare a meno di cercare la piccola spiaggia fatta di sassi, bagnati da un mare caldissimo che ha reso famosa questa zona e che sarà la destinazione di un prossimo itinerario. CAVA PELARA: COME SI E’ FORMATA? Ci sono voluti circa 200mila anni perché l’isola d’Ischia si formasse, grazie a complesse attività vulcaniche e tettoniche (cioè di costituzione della terra): le zone più antiche, per esempio le cupole del Castello Aragonese e di S. Angelo e il monte Vezzi, risalgono appunto a quel periodo. Le zone dell’escursione, invece, cioè il monte di Panza e la Cava Pelara, sono nate intorno a 28.000 anni fa, quindi sono geologicamente molto giovani (a quell’epoca sulla terra si era già da tempo evoluto l’ “homo sapiens”, il genere cui apparteniamo tutti noi, anche se a Ischia non è documentata la sua presenza già allora), quando le eruzioni successive di tre bocche vulcaniche hanno creato le due colline che fiancheggiano la cava Pelara. Ponendosi con lo sguardo verso il mare, la collina a sinistra si chiama capo Negro o monte di Panza, quella a destra capo Pilaro, in mezzo appunto c’è la cava Pelara. Le peculiarità che caratterizzano questa zona l’hanno fatta catalogare come un geosito, cioè un luogo che va preservato perché vi sono ‘architetture naturali’ che testimoniano processi geologici che hanno portato alla creazione dell’isola. Vediamo quali sono. Appare evidente che le alte rocce che chiudono verso il mare le due colline sono costituite da una pietra molto più consistente di quella che forma, invece, le alture circostanti. Nel corso dei millenni, il lavorio incessante compiuto dal mare ha fatto sì che le rocce più esterne venissero meno e franassero (formando le scogliere naturali che si vedono ai piedi delle alte pareti laviche), mettendo allo scoperto e consentendo agli studiosi di osservare con chiarezza il fenomeno geologico che ha generato il luogo. Tecnicamente, le rocce che costituiscono la base delle due colline si chiamano duomi lavici, per la loro forma sviluppata verso l’alto e più o meno conica, che ricorda le coperture delle chiese. Essa può essere dovuta a più ragioni: sicuramente ha influito la consistenza della lava, più viscosa, densa e che quindi non è scivolata via, inoltre è possibile che al momento dell’eruzione fosse racchiusa da altre rocce, che ne hanno impedito il libero scorrimento e l’hanno ‘costretta’ a incanalarsi verso l’alto, dando vita a queste imponenti fomazioni. Il fenomeno dei duomi lavici è presente anche a monte Vico e lungo la costa meridionale dell’isola, da punta della Pisciazza a S. Pancrazio. Al di sopra dei duomi lavici si sono sovrapposti i materiali generati dalle eruzioni di una terza bocca, quella della cava della Pelara, e che formano le due colline. Questa volta, però, il materiale emesso era di consistenze differenti dalla lava dei duomi. Gli strati di roccia che compongono il monte di Panza e il capo Pilaro, infatti, espongono ampie sezioni e si può osservare facilmente la loro formazione: si alternano strati di lava più consistenti, di tipo ‘scoriaceo’, cioè formata da brandelli di materiale incandescente emessi da eruzioni esplosive e che una volta ricaduti, si sono saldati fra di loro, a strati costituiti prevalentemente da pietre pomici, cioè quelle rocce leggerissime perché forate, che si generano quando ci sono eruzioni vulcaniche con abbondante emissione di gas ad altissima temperatura e pressione. (Testo realizzato con la consulenza scientifica del geologo Antonino Italiano) Pro Loco Panza Luigi D’Abundo alla cui caparbietà si deve gran parte del lavoro svolto, poi Nicola Migliaccio, Alessandro Impagliazzo, Mario e Vincenzo D’Abundo, Giovanni Castaldi, Francisco Polito, Mario Guarracino, Aniello Iacono, Leonardo Foglia, Franco Polito, Vittorio Barnaba, Adolfo Iacono, Costantino Polito (alcuni di loro appaiono nella foto accanto) sono coloro i quali hanno collaborato al ripristino del sentiero della Pelara. Chi volesse dare un aiuto all’associazione, può farlo tesserandosi o con un contributo volontario alle iniziative che promuove. La pro loco Panza gestisce da quattro anni un ufficio informazioni e organizza eventi fra i quali è molto interessante “Andar per cantine” (16-20 settembre 2011), giunto alla IV edizione e che propone un itinerario attraverso le più belle cantine dell’isola durante la vendemmia.

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