n.08/2006
Photo: Cristina Gambi
Text: Cristina Gambi
Questa idea del mare 7
Una popolare canzone di Edoardo Bennato recita: “Seconda stella a destra questo è il cammino e poi dritto fino al mattino, poi la strada la trovi da te, porta all’isola che non c’è”.
L’isola che non c’è…, ispirata alla famosa “Neverland” della favola di Peter Pan che tutti ricorderanno, è un luogo della fantasia, un posto utopico quanto improbabile quindi, che però alimenta in ognuno di noi la speranza di una remota alternativa di vita e di mondo.
Per noi ricercatori ecologi marini, tuttavia, qualche “isola che non c’è” esiste davvero e non rappresenta solo un’astrazione. Sparse per il mondo, a volte in zone piuttosto remote e selvagge, sono presenti numerose piccole stazioni scientifiche, spesso finanziate e gestite da Università o Musei di Storia Naturale occidentali, che gli anglosassoni chiamano “field stations” e che rappresentano dei preziosi punti di appoggio per permettere ai ricercatori di studiare ecosistemi ed organismi molto particolari, e attraverso la conoscenza portare avanti spesso anche programmi di conservazione e di protezione ambientale. Queste field stations, spesso situate su isole o lungo la costa, rappresentano un sistema che, anche se non coordinato o centralizzato, costituisce per lo studioso una rete di possibilità di ricerca ed approfondimento scientifico di grande importanza e valore. In molti casi queste piccole ‘isole’ di organizzazione scientifica rappresentano l’unica opportunità logistica di accesso e studio ad alcuni ambienti e aree geografiche del nostro pianeta.
Vorrei illustrare la mia esperienza del Novembre scorso presso una di queste field stations di biologia marina, e cioè Carrie Bow Cay che si trova nell’isolotto corallino omonimo al largo delle coste del Belize, cioè nella parte centro-orientale del Mar dei Carabi. Il Belize, ex Honduras britannico, è un piccolo stato collocato alla base sub-orientale della penisola dello Yucatan in massima parte messicana, e rappresenta una “enclave” anglosassone (l’inglese è la lingua ufficiale dello stato) in Centro America. La rilevanza ambientale e naturale del Belize è data dal fatto che i circa 400 km di costa dello stato sono caratterizzati dalla presenza della più grande barriera corallina dell’Atlantico tropicale e che è la seconda al mondo per sviluppo e grandezza, dopo la più conosciuta barriera Australiana.
La barriera si sviluppa circa 20 e 40 km dalla costa e la zona definita tra la costa e la barriera stessa rappresenta una vasta laguna interna. Sul fronte della barriera corallina e all’interno della laguna sono presenti numerose isole ed isolotti formati dai coralli stessi o dalle mangrovie, un gruppo particolare di “alberi” adattati a vivere con le radici e con parte del fusto sommersi nell’acqua marina. A queste isole ed isolotti in tutti i Carabi viene dato il nome di Cays; molti dei Cays sono disabitati, ma molti altri sono abitati sia da popolazione locale che da resort turistici. In uno di questi Cays si trova la stazione di biologia marina di Carrie Bow finanziata e gestita dal Museo di Storia Naturale dello Smithsonian Institution di Washington D.C., il più grande Museo scientifico degli Stati Uniti ed uno dei più grandi del mondo. Fondatore e direttore della field station, e quindi anima di Carrie Bow Cay, è il Prof. Klaus Ruetzler dello Smithsonian Institution ma austriaco di nascita. La stazione di biologia marina era in origine un resort turistico, costruito e gestito dai signori Gorge e Carrie Bowman (da cui il nome di Carrie Bow dedicato alla memoria della proprietaria). All’inizio degli anni ’70 Ruetzler visita per caso l’isolotto e realizza che il resort privato, affittandolo dai proprietari, si potrebbe trasformare in stazione di ricerca e farne un punto di studio del bellissimo reef corallino antistante; nasce così il programma scientifico dello Smithsonian “Caribbean Coral Reef Ecosystem programme” (CCRE) che ha per finalità appunto la conoscenza della struttura e del funzionamento della grande barriera corallina e degli ecosistemi adiacenti ad essa nella grande laguna interna, quali praterie di piante marine e mangrovie che costituiscono a loro volta sistemi complessi e molto ben rappresentati nelle vicinanze di Carrie Bow. Si può partecipare al programma CCRE se si propongono ricerche e studi su problematiche scientifiche relative a vari aspetti della biologia ed ecologia di specie ed ambienti caratteristici di Carrie Bow, ed in stretta collaborazione però con altri ricercatori dello Smithsonian. Un aspetto importante, che implica la presenza di un referente scientifico interno al Museo dello Smithsonian con cui concordare un progetto di comune interesse ed operare una stretta collaborazione ed una partecipazione congiunta alla ricerca ed alla fase di campionamento presso la field station. Una volta che il programma è stato valutato ed approvato da una Commissione ad hoc dello Smithsonian, il Museo offre ai ricercatori le spese di viaggio e quelle relative a soggiorno e ricerca per 2 settimane presso Carrie Bow Cay.
Il referente relativo al programma da me proposto è stato il Prof. Kristian Fauchald, il più grande studioso ed esperto al mondo di vermi marini, e con cui ho condiviso la mia esperienza di visita e ricerca a Carrie Bow.
In Belize si arriva dall’Europa solo facendo tappa in Florida o in Texas da dove partono poi i voli per Belize City. Da qui con dei piccoli aerei da turismo si raggiunge la cittadina di Dangriga più a sud, seconda città del Belize fondata dai Garifuna popolazione indigena originaria della vicina Jamaica. Da Dangriga con un’imbarcazione organizzata dallo Smithsonian si raggiunge in un’ora di navigazione veloce l’isolotto e la field station di Carrie Bow Cay. Da Roma mi ci sono voluti quasi tre giorni di viaggio, ma quando finalmente sono arrivata tutta la stanchezza ed il disagio di un viaggio così lungo sono spariti come per incanto! Eccola infatti “l’isola che non c’è”: 200 m circa di lunghezza e 70 m di larghezza, una ottantina circa di palme, sabbia corallina a terra, la barriera corallina a meno di 100 m di distanza dalla spiaggia, una costante e fresca brezza oceanica, una grande costruzione centrale in legno a due piani (dove sono i vari laboratori di ricerca), due altre costruzioni più piccole in legno su palafitte sul bordo della spiaggia (i nostri alloggi), due piccoli casottini sospesi su palafitte sullo specchio d’acqua che guarda la barriera (i bagni) ed un altro piccolo casotto per le docce e per ripostiglio delle attrezzature subacquee e del generatore elettrico, un piccolo moletto in cemento rivolto verso la calma laguna interna con due barche attraccate.
La fresca e costante brezza oceanica è l’unico sistema di “aria condizionata” dell’isola, mentre il costante e leggero infrangersi delle onde sulla barriera e le grida delle fregate oceaniche, dei gabbiani, delle sule e dei pellicani sono il solo sottofondo musicale che accompagna il nostro soggiorno. È tutto qui…, ogni altro comfort o necessità sono superflui….e subito realizzi che non vorresti più andartene!
Il mio progetto di ricerca in questo piccolo pezzo di paradiso, riguardava lo studio di un gruppo particolare di vermi (e sì sempre i miei amati vermi!), associati alla principale pianta marina locale (Thalassia testudinum) ed ai coralli, e la cui identificazione e conoscenza sono ancora molto carenti nel Mar dei Caraibi facendo supporre molto verosimilmente l’esistenza di diverse specie nuove ancora da scoprire e descrivere. In Mediterraneo studio un gruppo molto affine di specie di questi vermi, che nel Mare Nostrum sono associati alla Posidonia ed ad alghe calcaree, per cui l’opportunità di analizzare materiale di origine tropicale, e la prospettiva di individuare specie nuove per la scienza era un’occasione troppo ghiotta. In generale il mio lavoro di ricerca è principalmente di tipo ecologico, anche se per svolgerlo utilizzo come strumento soprattutto la conoscenza sistematica del mio gruppo di studio, i vermi marini o policheti appunto. Non esiste per me cosa più gratificante ed eccitante nel mio lavoro di quando si prospetta l’ipotesi della scoperta di una specie nuova, cioè di una forma di vita che tu riconosci e descrivi per la prima volta dandogli un nome ed una collocazione nel grande albero della vita. La specie nuova rimane legata per sempre al suo scopritore il cui nome viene sempre citato dopo quello della specie stessa a ricordarne insomma una vera e propria forma di “paternità” (o maternità in questo caso) intellettuale.
La finalità quindi del mio lavoro a Carrie Bow era quella di raccogliere il maggior numero di questi vermi marini associati ai diversi ambienti ed organismi presenti attorno all’isolotto che mi ospitava, quali piante marine, coralli e spugne, e verificare la presenza di forme diverse da ricondurre a possibili nuove specie.
La mia giornata di lavoro tipo è stata la seguente, sveglia all’alba alle 6 di mattina e colazione alle 7, alle 8 già eravamo pronti per andare a mare a campionare con la barca appoggio e gli altri colleghi e lo staff preposto all’assistenza. In genere tornavamo da mare intorno alle 11, in tempo per sistemare negli acquari annessi ai laboratori il materiale campionato e per prepararci al pranzo delle 12. Il pomeriggio, si usciva di nuovo a mare verso le 2 per continuare i campionamenti e rientrare sempre prima delle 5, ora in cui a queste latitudini il sole comincia a tramontare. Tra le 5 e le 6 si svolgeva in genere una piacevole pausa nel Carrie Bow Club, un gruppo di sedie a sdraio poste attorno ad un tavolino sul bordo della spiaggia, per fare due chiacchiere con i colleghi, bere un aperitivo ed ammirare il tramonto sotto le palme, il migliore momento di relax della giornata!
Dopo la cena delle 6 si lavorava in genere qualche altra ora allo smistamento ed analisi al microscopio del materiale raccolto durante la giornata, per poi andare a riposarsi percorrendo il breve tratto tra i laboratori e nostri alloggi lentamente e con la testa volta in alto ad ammirare lo spettacolo del cielo stellato e della luna tra le chiome delle palme.
Ma non vorrei dare una visione troppo idilliaca, anche se dopo alcuni giorni di questa vita e con questi ritmi, è difficile ritornare nel ‘mondo reale’, ma anche Carrie Bow da piccolo paradiso si più trasformare in un piccolo inferno! Tutta l’area dei Caraibi e del Golfo del Messico infatti convive con l’incubo, quasi costante in alcuni periodi dell’anno, degli uragani, e il recente triste ricordo degli effetti di Katrina su New Orleans valga per tutti. Anche Carrie Bow non sfugge al suo destino e ha subito danni di varia entità e riassetti delle sue dimensioni e forma in seguito a diversi di questi eventi catastrofici che sono gli uragani, tra cui quelli più distruttivi del 1978 con Greta e nel 1998 con Mitch che ridusse le dimensioni dell’isola e cancellò completamente un altro piccolo isolotto attiguo a monito di quello che potrebbe essere il destino anche di Carrie Bow!
Il nostro soggiorno si svolgeva in un periodo che doveva essere già fuori della stagione più frequente degli uragani (in genere tra settembre ed ottobre), ma le condizioni eccezionali ed anomale dell’anno scorso hanno sconvolto qualsiasi previsione e uragani e tempeste tropicali (prodromo agli uragani stessi) si sono succeduti e procrastinati con inaspettata frequenza. Prima della mia partenza agli inizi di Novembre, erano appena passati l’uragano Wilma e le tempeste tropicali Alfa e Beta; mentre eravamo a Carrie Bow si è sviluppata la tempesta Gamma il cui fronte si è portato a circa 300 km dal nostro isolotto. Questo ci ha costretto a lasciare la nostra “isola che non c’è” con qualche giorno di anticipo a causa del forte vento, del mare mosso e dell’impossibilità quindi di lavorare a mare, ma soprattutto a causa dell’imprevedibile evoluzione del fenomeno e dei rischi associati.
Nonostante questo inaspettato, ma non troppo, fuori programma, che peraltro ha aggiunto un ulteriore pizzico di avventura a questa esperienza, sono stata fortunata e sono riuscita a raccogliere un buon numero dei miei vermetti, presenti con ben 5 diverse “forme”, forse attribuibili ad altrettante specie nuove. Sono contenta soprattutto di aver avuto la possibilità di aggiungere un pezzettino di conoscenza, anche se piccolo, alla migliore definizione della biodiversità di uno degli ecosistemi più diversificati ed affascinanti del mondo, la grande barriera corallina del Belize.