25/2008
Photo: Riccardo Sepe Visconti
Text: Silvia Buchner
“Il sentiero, man mano che si procede, diventa sempre più accidentato, mentre la vista migliora sempre più. Non aggiungerò altro riguardo ai panorami, l’isola d’Ischia è piccola, ma offre scenari in qualsiasi direzione si guardi”. Così commentava un visitatore dei primi del ‘900, Pino Orioli, proprio esplorando la zona di Campagnano e piano Liguori in cui è ambientata questa passeggiata d’autunno, organizzata per i lettori di Ischiacity dalla guida escursionistica Assunta Calise. Noi, invece, i panorami, cercheremo di raccontarli, un po’ con le parole, soprattutto con le immagini, per restituire il fascino di un angolo dell’isola che è insieme selvatico e addomesticato, solitario e popolato ancora – per fortuna – da isolani che conoscono l’arte di coltivare la terra e continuano a curare vigneti, frutteti e orti, inerpicati su queste belle colline. Ma oltre ai paesaggi, questa escursione, ci ha regalato tanti sapori. Come quelli delle molte piante incontrate lungo il percorso e che a vario titolo si possono mangiare (ad alcune sono dedicate le nostre schede). E poi il sapore degli ingredienti tutti rigorosamente ischitani (a parte l’olio pugliese) di un indimenticabile pane e pomodoro che ha preparato per tutti l’ospite d’eccezione della gita, Bruno Molinaro, che ci ha accompagnato insieme alla sua collega Angela Cuomo. Bruno è uno dei più importanti avvocati dell’isola, e dell’isola e delle sue tradizioni è innamorato: quindi ha scelto pane rigorosamente cotto nel forno a legna di Boccia, uno dei panifici più celebri a Ischia, pomodori, olive, capperi, origano raccolti nel suo orto. Noi lo abbiamo gustato alla meta finale della gita, in uno dei luoghi più suggestivi fra quelli toccati, il promontorio di San Pancrazio. Ma già lungo la strada che conduce alla piazza di Campagnano, dove la passeggiata ha inizio, la prospettiva è unica: questa frazione interna del comune di Ischia, infatti, ha il privilegio di affacciarsi sulla baia di Cartaromana e sul castello Aragonese che, da soli, meritano un viaggio in quest’isola. Questo paesaggio che fonde con rara armonia l’opera monumentale dell’uomo – il Castello e la torre Guevara che sta di fronte – con l’ambientazione naturale della baia e degli scogli di S. Anna, ci accompagnerà per tutto il primo tratto del nostro cammino, per poi lasciare lo spazio ad altre visioni, altrettanto spettacolari ma differenti, a conferma, se fosse necessario, dell’estrema varietà che quest’isola offre a chi vuole osservarla un po’ più da vicino.
Basta imboccare la stradina che costeggia a destra la chiesa dell’Annunziata, al centro della piazza di Campagnano, e dopo averla percorsa qualche centinaio di metri prendere, sempre sulla destra, via Torre per aprire istantaneamente la porta sulla cultura contadina che qui si può toccare con mano, ancora vitale. Nelle cantine in piena attività per la vendemmia, nei piccoli appezzamenti di terreno, dove il proprietario zappa ancora a mano fra gli alberi da frutto, nelle fosse utilizzate come deposito per attrezzi, nei vigneti, più ordinati dei nostri salotti. Si sale per circa un’ora: ai lati il vigneto si alterna al bosco di querce, lecci e castagni, così tipico delle alture ischitane, intorno al quale cresce felicemente il sottobosco e la macchia. Sono bastate le poche piogge di settembre a riportare istantaneamente la vita e in molti punti si cammina quasi in un tunnel di vegetazione attraverso la quale sono stati ricavati minuscoli sentieri. Talvolta sono solo in terra battuta, in altri casi anche pavimentati con grandi massi, a segnare percorsi che per secoli hanno condotto ai campi. I passaggi, davvero stretti per non togliere spazio alle colture, sono aperti negli alti banchi di ‘maschione’, come si chiama qui un tipo di terreno che si può tagliare col piccone ma che è al tempo stesso molto consistente: la sensazione che se ne ricava – molto rassicurante – è di essere avvolti dalla terra stessa. Una segnalazione speciale lungo il cammino: in località Due Torri, è sufficiente salire i pochi metri di dislivello fra il viottolo e il pianoro su cui si trova un’antica torre di avvistamento, per godere di un magnifico colpo d’occhio. Ci si può infatti agevolmente affacciare sull’altro versante della collina e da lì dominare (il luogo merita di avere con sé un binocolo!) il susseguirsi di isole, penisole, baie che definiscono il golfo di Napoli in questa zona. In primissimo piano, come il dorso di un animale il verdissimo isolotto di Vivara, subito dopo Procida, di cui si distinguono persino le case, di fronte monte di Procida, cui segue la penisola di capo Miseno e l’ampio golfo di Pozzuoli, e per chiudere l’isolotto di Nisida seguito da capo Posillipo. E non è finita: in lontananza il Vesuvio, e spostando lo sguardo verso destra, i monti Lattari, la penisola Sorrentina e Capri, da cui ci separa il mare aperto, infinite scaglie iridescenti in movimento sotto la luce.
Intorno le voci delle persone impegnate a vendemmiare, l’aria dolce dell’autunno è impregnata dell’odore pungente delle vinacce spremute, che vengono lasciate nei campi come concime, e del primo mosto che fermenta. Giovanni Trani, Nannina Di Meglio, Giuseppe Trani sono alcune delle persone incontrate quassù, di altre non sappiamo i nomi, ma si sono fermate a parlare con noi, ci hanno fatto entrare nelle cantine che costellano piano Liguori, spesso nascoste perché ricavate proprio scavandole nel ‘maschione’. Le viti crescono piuttosto alte per consentire ai grappoli di essere raggiunti dal calore del sole che a causa dell’esposizione di questi luoghi è sicuramente meno intenso e prolungato che sul versante meridionale dell’isola, e infatti la gradazione del vino che si ricava arriva ai 9-10° al massimo. Raggiunto il Piano, si cammina per una rete di minuscole, immacolate stradine che innerva i vigneti, in verità quasi mai separati da cancelli (talvolta sostituiti, secondo una deleteria abitudine, da una vecchia rete per il letto), per lo più, infatti, i passaggi sono aperti, e si ha l’impressione di attraversare un unico, grande campo che, all’inizio della primavera, quando le viti sono ancora spoglie, ospita filari geometrici delle più belle e produttive piante di carciofi di tutta l’isola. E’ un terreno molto fertile questo, dove accanto a viti e carciofi trovano posto gli alberi da frutto più tradizionali: meli, melograni, alberi di fichi e sorbe. Un discorso a parte meritano gli alti alberi di noci, molto diffusi nei vigneti ischitani: si usava piantarne uno quando nasceva una figlia, in modo che prima desse i suoi frutti molto nutrienti a tutta la famiglia, e poi, quando arrivava per la ragazza il momento del matrimonio, il legno si adoperava per costruire il letto nuziale. Ancora ‘vecchio stile’ anche la tecnica di sostegno delle viti, con i pali di castagno, mentre altrove nell’isola stanno prendendo piede gli antiestetici paletti di cemento, privilegiando ancora una volta la praticità a dispetto della bellezza dei luoghi e, in realtà, anche della legge, visto che il piano paesistico obbliga all’uso dei sostegni in legno sia per le viti che per le recinzioni delle proprietà. “Una ragione in più per sostenere il ritorno al sistema antico” ci ha spiegato l’avvocato Molinaro, che in passato è stato anche assessore all’ambiente del comune di Barano.
Dopo aver attraversato il minuscolo pugno di case contadine, tutte rigorosamente con la cantina e i depositi al pianterreno, alcune disabitate, altre piene di vita, che costituiscono l’abitato di piano Liguori, lasciandoci alle spalle anche il ristorante omonimo che gode di una veduta notevole, abbiamo una meta assai più ambiziosa, il promontorio di S. Pancrazio. La strada va affrontata con gambe e scarpe adatte, è infatti piuttosto lunga – sdrucciolevole in discesa, assai faticosa in salita. Ma in cambio ammirerete qualcosa che pochi conoscono. Il sentiero è un sottile nastro bianco che si snoda prima lungo il ciglio di una magnifica cava, che fra l’altro costituisce il confine fra i comuni di Ischia e Barano e che scende larga e profonda fino al mare, tappezzata da una foltissima macchia mediterranea e da alberi d’alto fusto, splendidi i corbezzoli carichi di piccoli frutti rossi e i lentischi. Più avanti si procede a zig zag lungo il fianco della collina, che qui è coperta da uno strato di lapillo fuoriuscito attraverso eruzioni vulcaniche, si tratta di un materiale per nulla compatto, costituito di sassolini simili alla pomice e che si sbriciola con estrema facilità tanto è vero, ci spiegano, che il margine della cava frana di anno in anno. Intorno, terrazzamenti ormai coperti dall’erba e dalle felci sono quanto resta di antichi vigneti abbandonati, e tuttavia, proprio in fondo, sul promontorio c’è chi il vigneto ha scelto proprio di reimpiantarlo. E’ il signor Giuseppe Trani, che gentilmente sulla via del ritorno (ripidissima e faticosa, come ho già detto) ci ha riaccompagnati in cima, a bordo del suo trattore, e che ogni giorno scende quaggiù a ‘coltivare’ la sua più grande passione. I terrazzamenti del giovane vigneto arrivano quasi fino la mare, mentre quelli più ripidi ospitano un oliveto, coltura in realtà difficile da trovare in forma estensiva nell’isola d’Ischia.
Poco più in alto, chiama alla sosta una minuscola terrazza, il luogo ideale in cui divorare il delizioso ‘pane e pomodoro’! Alle spalle un vecchio edificio in rovina, come soffitto ormai solo il cielo, ma una porzione è stata restaurata (anche se con troppa approssimazione) ed ospita la spoglia cappella dedicata appunto a S. Pancrazio, dove ogni anno a giugno si compie un pellegrinaggio; di fronte si domina il mare. Siamo già sul versante sud dell’isola e si vede, la vegetazione è scarsa, d’estate qui il sole è a picco. Oltre si scorge l’inizio della Scarrupata di Barano, un’alta parete di roccia scoscesa, che era un pezzo di un antichissimo vulcano (la parte mancante è sprofondata in acqua), geologicamente ritenuto dagli studiosi la parte più antica dell’intera isola. Giù giù, la spiaggetta di S. Pancrazio, non raggiungibile da terra, è una falce di sassi che si apre sul mare trasparente, nel punto in cui il costone arretra un pochino.
Tornati sopra, si può arrivare molto rapidamente di nuovo a Campagnano, il punto di partenza, attraverso un’erta strada basolata che scende precipitosamente. E proprio queste antiche vie d’accesso, così poco amichevoli per chi non voglia andare a piedi e così suggestive, hanno permesso di conservare quasi intatto il mondo di queste colline, custodendo le sue case tradizionali, cui si è aggiunto poco altro, i suoi campi ben tenuti, i suoi panorami, i suoi ritmi che sono anche i ritmi della terra.