n.05/2005
Photo: Riccardo Sepe Visconti
Text: Mariacristina Gambi
Io studio i vermi!
“Spesso le grandi lezioni ci vengono dai…piccoli organismi!” Questa frase, per me famosa, usava ripetere il mio compianto docente di Anatomia Comparata all´Università di Siena, dove ho studiato biologia a metà degli anni ´70. Il mio professore, convinto ed appassionato evoluzionista, per “grandi lezioni” intendeva gli adattamenti degli esseri viventi all´ambiente e per “piccoli organismi” i suoi favoriti piccoli mammiferi terrestri, ma ho verificato in seguito che la frase è veritiera per qualsiasi gruppo di animali o di vegetali si voglia considerare. Questo breve preambolo per introdurre l´argomento dello scritto di questo numero e tentare di spiegare e rispondere alla domanda che mi hanno fatto e continuano a farmi molti non addetti ai lavori sul …perché studio i policheti (vermi marini segmentati ascrivibili nell´ambito della categoria generale sopra indicata dei “piccoli organismi”). Ma soprattutto….a che serve? In altre parole, a quale scopo, ovviamente utilitaristico, secondo l´imperante visione antropocentrica del mondo?
È bene chiarire, per presentarmi ulteriormente ai lettori di questa rubrica, che nell´ambito del lavoro pur vario di ricerca in ecologia e biologia marina che svolgo presso il Laboratorio di ecologia del benthos di Ischia (Laboratorio della Stazione Zoologica di Napoli), la mia più specifica competenza e specialità è appunto la tassonomia e biologia dei vermi marini. Nessuno ha mai fatto “i soldi” studiando i policheti (anche se posso citare l´emblematica eccezione di un professore inglese che appunto conferma la regola), né ha mai vinto il premio Nobel (e in questo caso non conosco eccezioni!), inoltre i vermi non si mangiano, pur sempre con alcune eccezioni! Tuttavia, di recente un gruppo limitato di specie di vermi marini hanno acquisito un certo valore commerciale come esche per la pesca sportiva e professionale (tra cui l´esca rossa raccolta proprio nel golfo di Napoli), o come alimenti per crostacei e pesci d´allevamento, nonché come organismi decorativi per gli acquari; quindi una se pur limitata giustificazione e risposta utilitaristica potrebbe essere data allo studio dei policheti. Ma non è la riposta giusta per me!
Quindi di nuovo sorge spontanea ai più la domanda perché e a quale scopo dedicare la propria carriera scientifica e professionale allo studio dei vermi? Beh, a questo punto devo proprio rispondere. E la risposta è la più ovvia e banale possibile, e cioè che i vermi marini mi piacciono! Sì, potrà sembrare strano, e nel mondo conosco più o meno altri 500-600 studiosi che hanno questa mia stessa”passione”, ma sicuramente ognuno di noi conosce o ha conosciuto nella vita un naturalista a cui piacciono gli organismi più impensabili e improbabili, quali ragni, rospi, serpenti, api, zanzare e appunto… vermi marini! I naturalisti, esseri umani come gli altri a tutti gli effetti, possiedono però a differenza dei più un´attitudine della mente e dello spirito, ed un interesse ed approccio che definirei “emotivo” verso alcuni “oggetti” naturali (o soggetti, come direbbe un buon naturalista) davvero particolare. A questo atteggiamento mentale ed emozionale, a questa sorta di “sentimento”, il grande biologo ed evoluzionista vivente Edward O. Wilson ha dato un nome (titolo anche di un suo libro in proposito), e cioè “biofilia”. Ma oltre a questo, l´oggetto/soggetto naturale per il naturalista diviene un po´ come, se mi si consente un paragone ardito ma non troppo, lo strumento per il musicista, cioè essenzialmente un mezzo per…fare musica! E qui mi riallaccio di nuovo alla frase del mio professore… le grandi lezioni ci vengono spesso dai piccoli organismi, come dire che si può fare della gran bella musica con qualsiasi strumento si abbia la disposizione di conoscere e appunto di amare, non importa la sua grandezza o complessità!
Il gruppo animale o vegetale che emotivamente (e professionalmente) ci intriga così tanto, diviene dunque il tramite per lo studio più generale della natura, dei processi vitali e di quelli ecologici e storico-evolutivi, che sono comuni a tutto il vivente. Si possono quindi affrontare “grandi problemi” di base della biologia, dell´ecologia e dell´evoluzione attraverso la conoscenza, ed in alcuni casi soprattutto grazie all´esempio di “piccoli organismi” viventi apparentemente insignificanti, banali e senza alcun immediato interesse utilitaristico per l´uomo. Posso, a titolo di esempio, citarvi alcuni dei fenomeni e processi più significativi e di portata più generale che è stato possibile definire e mettere in luce grazie allo studio dei vermi marini segmentati e cioè i policheti? Vediamo se ci riesco: il successo evolutivo dell´organizzazione e struttura “metamerica” (cioè ripetitiva e modulare) del corpo (ce l´abbiamo anche noi mammiferi!); la regolazione ormonale della riproduzione (anche questa ci appartiene!); la simbiosi con alcuni batteri chemiosintesi, fenomeno non comune tra gli animali; la rigenerazione dei tessuti, inclusi i gangli nervosi; la riorganizzazione cellulare e dell´espressione dei geni in concomitanza con la riproduzione; l´adattamento a condizioni ecologiche estreme (inquinamento, grandi profondità, acque fredde) in cui molti altri organismi vengono fortemente selezionati, mentre diverse specie di “vermi” resistono. Beh, spero che basti a giustificare e rispondere, oltre alla biofilia, del mio interesse anche scientifico-professionale, verso i vermi marini! E considerate che questa apologia può essere fatta per qualsiasi gruppo di organismi viventi da uno specialista che si rispetti del gruppo stesso. Dunque vedremo, nel seguito di altri capitoli di questa rubrica, qualcuna delle grandi lezioni di vita che ci vengono insegnate dai… policheti come da quegli altri piccoli organismi spesso misconosciuti. Anche se nell´ambito della scienza non dovrebbe esistere una gerarchia di valore basata sull´oggetto/soggetto di studio, ed un giudizio di valore assoluto sulla conoscenza, spesso e soprattutto oggi non è così. Posso comprendere che vi siano degli interessi più praticati in ambito scientifico e delle priorità di studio e di ricerca, legate ad alcune oggettive necessità sociali e committenze di gruppi economici, da cui appunto derivano poi spesso i riconoscimenti ufficiali, quali il Nobel, ecc. Ma in generale la conoscenza dovrebbe essere considerata tutta potenzialmente utile ed importante per l´umanità, senza farsi guidare sempre e solo dalla portata pratica, utilitaristica, commerciale ed in ultima analisi “antropocentrica” del valore della conoscenza stessa. Non dimentichiamo a questo proposito che numerose scoperte, anche di portata notevole per i loro evidenti benefici verso l´umanità (la scoperta della penicillina da parte di Fleming è il caso paradigmatico più famoso di questo fenomeno) sono dovute al caso o a quella che viene indicata come “serendipità*”, cioè sono state ottenute studiando cose completamente diverse e di nessun iniziale sospettabile valore pratico e/o commerciale, e per scopi tutt´altro che utilitaristici. La serendipità è un fenomeno sempre più raro oggi, anche perché molte volte la scoperta fatta per caso viene sminuita, si dice insomma: “Sì, è stato bravo, ma se non fosse accaduto quel fatto inatteso non avrebbe mai scoperto nulla”. Non si capisce che la vera grandezza di uno scienziato si misura spesso con il metro della serendipità. La serendipità non pretende di essere metodo scientifico, che possa sostituire il modo di procedere ortodosso dei ricercatori, ma è un´applicazione particolare di un processo logico, l´abduzione, abitualmente usato dagli scienziati. È, in altre parole, l´attenzione verso un´eccezione, che può sembrare, a prima vista, un´eresia, ma che deve essere parte costante dell´agire dello scienziato, il quale dovrebbe guardare cosa accade con un atteggiamento mentale scevro da ogni preconcetto. Solo infatti una mente elastica potrà ricondurre il dato discordante e inatteso a una possibile novità invece che a una deviazione fastidiosa perché non facente parte del proprio percorso logico e delle proprie aspettative. Dunque con questo non posso escludere “a priori” che lo studio dei vermi marini possa portare, in termini pratici ed antropocentrici appunto, ed attraverso magari un atto di serendipità, a scoprire ad esempio un rimedio per poter ridurre l´impatto dell´inquinamento organico e chimico del mare! Magari non sarebbe una scoperta da Nobel (secondo i parametri dell´establishment che assegna il premio Nobel sia chiaro) …ma sarebbe comunque una gran bella soddisfazione!
“I semi di una grande scoperta sono costantemente presenti nell´aria che ci circonda, ma essi cadono e fanno radici soltanto nelle menti preparate a riceverli” Joseph Henry (fisico americano, 1797-1878) * Il termine “serendipità” deriva dall´isola di Serendippo, antico nome di Sri Lanka (Ceylon), e in particolare dalla novella dei tre principi di Serendippo di Cristoforo Armeno, che ha ispirato anche il racconto “Zadig” di Voltaire.