Thursday, November 21, 2024

NICOLA GRATTERI: LA PAURA E’ QUANDO LA LINGUA DIVENTA AMARA

inteview_Riccardo Sepe Visconti | photo_Dayana Chiocca

In un Paese (come il nostro) che ha bisogno di eroi, quando un magistrato diviene un simbolo, la sua funzione – piaccia o non piaccia – da giudicante diviene educativa: “limitarsi” a svolgere bene il proprio compito non è più sufficiente, da uomo-simbolo bisogna assumere la funzione (e vestirne i panni) del Maestro. È dal magistrato-simbolo che prende forma la visione etica che il cittadino si forma sul ruolo di tutta la magistratura. Ecco la grande responsabilità che, al di là dei propri gravosissimi compiti quotidiani, pesa sulle spalle di questi uomini che, per favore non dimentichiamolo, sono, appunto, degli Uomini.

Nicola Gratteri, magistrato in primissima fila nella lotta contro la Gratteri_0388 WEB_2893, Procuratore aggiunto presso la Procura di Reggio Calabria, vive da 25 anni sotto stretta scorta (nel 2005 fu sventato un attentato contro di lui nel quale sarebbero stati utilizzati esplosivo al plastico, lanciarazzi, mitra kalašnikov e bombe a mano!), recentemente il suo nome fu speso dal premier Renzi come possibile ministro della giustizia, salvo poi essere sostituito, all’ultimo minuto, dalla figura – più politica – di Andrea Orlando. A questo proposito, il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti s’è sentito di voler precisare che «i politici fanno i politici ed i magistrati fanno i magistrati. I migliori di noi devono continuare a fare i magistrati, poi ognuno è libero di compiere le proprie scelte». 

Ed è su questi argomenti che in una serata ischitana, alla una di notte ho potuto intervistare il nostro uomo.

Cos’è la paura?

La paura è quando diventa la lingua amara, è il segnale che c’è il pericolo; la paura bisogna averla, bisogna sentirla ma è necessario anche dominarla, parlarci, ragionarci per andare avanti, rischiare. Però dev’essere un rischio calcolato, perché è inutile andare oltre quelli che sono i limiti e le possibilità.

Mi parla di “rischio calcolato”: quello che corre lei lo è? Il calcolo dov’è? E se i conti non tornano?

Guardi… Io parlo spesso con la morte, mi rendo perfettamente conto del rischio che corro, man mano che passano gli anni cresce sempre di più perché aumenta la possibilità per me di fare indagini, girare il mondo per contrastare la ‘ndrangheta e il narcotraffico. Il rischio aumenta, però non ho vie di uscita, non ho vie di scampo, se mi fermassi, se mi tirassi indietro mi sentirei un vigliacco.

Mi sta dicendo che non sa fare nulla di diverso?

Non voglio diventare una persona che sa di poter agire per arginare il fenomeno mafioso e non lo fa per codardia, non ne sarei capace.

Per fare il magistrato è necessario essere un eroe?

No, quando ho iniziato il mio lavoro in magistratura non sapevo che sarei arrivato a questo livello di vita inimmaginabile. Ma nel corso degli anni, conducendo indagini sempre più approfondite, alzando il livello dei personaggi da indagare si arriva al punto in cui si capisce che il rischio è elevato.

Cosa la rende particolarmente vulnerabile?

Io sono attentissimo: non faccio dieci metri senza la macchina blindata, non vado da più di vent’anni al cinema, non vado al ristorante, ho il mare a 8 chilometri da casa ma non faccio il bagno, cambio continuamente strada, non dico mai dove vado, solo pochi conoscono i miei percorsi.

Il suo è un lavoro necessario, ma non sempre lo Stato è in grado di garantire i mezzi idonei a chi – come lei – compie un’attività fondamentale per il tessuto del nostro Paese. Perché accade questo, secondo lei?

Per arginare il fenomeno mafioso bisognerebbe avere il coraggio, la volontà, la libertà di cambiare le regole del gioco, nel rispetto della Costituzione cambiare i codici, il codice di procedura penale, l’ordinamento penitenziario e fare tante di quelle modifiche fino a quando non diventi non conveniente delinquere. Infatti, è un discorso di convenienza: fino a quando sarà conveniente delinquere, superati i freni inibitori da parte del mafioso, di chi fa il male, il soggetto delinquerà. Viceversa, se sa che commettendo il reato il processo ci sarà in pochissimo tempo e arriverà una condanna che lo terrà in carcere almeno vent’anni, comincerà a non essere più così conveniente violare la legge. D’altra parte, chi, come me, tira molto la corda, chi si impegna – perché a un certo punto il lavoro diventa quasi una dipendenza – è ovvio che rischia la sovraesposizione: spesso, tuttavia, non si è in grado di capire qual è veramente il rischio che si sta correndo. Accade allora che molte volte si sottovaluta la situazione, altre per non sbagliare si generalizza e si dà la scorta, la tutela a chi non dovrebbe averla, può capitare e capita che ci siano degli eccessi sia in un senso che nell’altro. Ripeto che per me sono più importanti e più urgenti gli strumenti normativi, le regole del gioco e non la parte diciamo così militare, che è certo indispensabile, ma se avessimo un sistema forte, duro, noi oggi non staremmo ancora qui a discutere di mafie a questo livello, di mafie così forti, così feroci.

Arriviamo, quindi, al solito punto che obbliga un magistrato a parlare di politica, perché è un sistema che dovrebbe funzionare in un certo modo e dare gli strumenti…

Sì certo, è un problema legislatorio, è il politico che deve agire, è ovvio!

Lei ha avuto la possibilità di accedere alla più alta carica politica, di diventare ministro della Giustizia. Poi, cosa è accaduto, è lei che non ha accettato?

No, no… Dopo che mi è stato garantito da parte del presidente del Consiglio Renzi e del vicepresidente Del Rio, che avrei avuto carta bianca per fare le modifiche normative di cui ritenevo esserci bisogno e di poter agire nella direzione del Ministero, il mio nome era nell’elenco dei 16 ministri. Poi… non so cosa è successo dentro quella stanza, io non c’ero.

Le è dispiaciuto di non aver avuto questa opportunità?

Ero molto combattuto, perché io amo in modo viscerale questo mio lavoro, ma nello stesso tempo era un sogno anche quello di poter finalmente cambiare le regole del gioco. Poi, non l’ho fatto, ed è stato un sospiro di sollievo, nel senso che c’era il rischio che queste modifiche non passassero…

Pensa che il Ministro ha il potere di cambiare le regole del gioco?

Sì, il Ministro da solo può fare tantissime cose, intanto può informatizzare il processo, può ridisegnare la geografia giudiziaria: non solo ci sono ancora tribunali da chiudere, ma si possono spostare magistrati in tribunali dove c’è più bisogno, per esempio a Reggio Calabria stanno scoppiando. Un buon Ministro che crea una commissione di esperti in grado di realizzare riforme serie, io penso che possa fare grandi cose.

Libera Chiesa in libero Stato: si parla molto in questi giorni dell’inchino delle statue dei Santi durante le feste patronali davanti alle case dei mafiosi. Ma la Chiesa non ha il diritto di fare quello che vuole, anche inchinarsi davanti al mafioso di turno?

No, penso che non abbia questo diritto, perché nel momento in cui il mafioso porta il Santo facendo inchinare la statua, diventa un’esternazione del potere da parte del mafioso che non si può ammettere, che non può essere autorizzata.

Le chiedo di fare un bilancio della sua attività di magistrato. 

Penso che come chiunque ha lavorato, avrò fatto degli errori, delle cose avrei potuto farle meglio, ma complessivamente, per quelli che sono gli strumenti che ho avuto a disposizione, ritengo che ho fatto delle belle cose.

Immagino che se le chiedo se, tornando indietro, rifarebbe tutto, mi risponde di sì.

Tornando indietro, farei di meglio e di più.

C’è un’indagine che avrebbe voluto dirigere lei e non ha potuto farlo?

Tutte quelle che ho voluto, che ho potuto, che riguardavano la mia terra, la mia zona le ho fatte.

Il suo peggiore nemico chi è? Possiamo dargli un nome e cognome?

No, nemici no, a volte c’è un po’ di invidia, di cattiveria gratuita da cui non ci si può difendere, e quella è una cosa che mi dispiace.

Gelosia e invidia, anche nella magistratura…

Sono sentimenti molto diffusi, dappertutto, in tutti i mestieri, anche nel giornalismo, no? Se uno riesce a fare una cosa buona, importante scatta l’invidia, ci sono le malelingue, i pettegolezzi inventati. I risultati vengono se lavori 12 ore al giorno, 360 giorni all’anno, certe indagini ti capitano una volta nella vita e se lavori in modo sistematico ogni giorno, riesci a fare ogni mese, mese e mezzo, cose belle, superiori alla media, che riguardano i circuiti criminali internazionali.