Thursday, November 21, 2024
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Il concerto di Paolo Conte, gigante della musica italiana e internazionale, nell’offerta culturale dell’isola d’Ischia, è avvenimento degno di massima attenzione. Non solo da parte di chi è votato all’ossequio codino del Maestro, o è corso a Piano & Jazz 2015 per fingersi entusiasta e appuntarsi sul petto la coccarda dell’intellighènzia delle sette note, ma perché la figura di Paolo Conte rappresenta davvero una delle esperienze cardinali mai espresse dalla cultura di questo paese. Un classico moderno, interprete di un “genere non genere”, pericoloso e romantico quanto il Novecento. Il secolo celebrato dall’artista, con sacri vinili e canzoni strepitose, nel suo commovente tramonto.
Il grande astigiano è oggi musicista iperinterpretato, approfondito con mirabili sottigliezze da chi lo considera un autore denso di significati e suggestioni, gioiosamente vezzeggiato quale incisore di brumose atmosfere, accaparrato da intellettuali e petulanti wanna be, ritenuto perfettamente congeniale da semiologi dell’altrove e appassionati di jazz né troppo duri, né troppo puri. In realtà, a un anno dall’uscita del suo ultimo lavoro “Snob”, chiedersi se si possa ancora dire (o scoprire) qualcosa di nuovo su Conte nasconde un altro dubbio, ben più radicale e imbarazzante, comune – del resto – a tutti i sommi protagonisti del canzoniere italiano ascesi alle sfere dell’intoccabilità: Paolo Conte è certamente un classico, uno degli artisti emblematici del panorama musicale italiano e internazionale. Ma è un classico vivo o un classico morto? Appartiene ormai solo alla storia o alimenta ancora la cronaca quotidiana delle nostre emozioni?
Più che confezionare una risposta per forza di cose pretenziosa, è preferibile partire dalle considerazioni più semplici per raccontare le sue canzoni, i suoi testi, la sua parabola artistica.
Malgrado l’etichetta di irresistibile chansonnier, l’avvocato col vizio del jazz si è sempre discostato dai cliché della canzone d’autore, non soltanto italiana. Mettendo insieme una voce sempre scanzonata e beffarda, cupa ma non troppo catarrosa, testi suggestivi e nonsense, una serie di influenze musicali che spaziano dal jazz d’annata al tango, dallo swing all’honky tonk. Canzoni al tempo stesso orecchiabili, fantasiose e mai troppo cerebrali.
“Ladri di stelle e di jazz, così eravamo noi… le donne odiavano il jazz, non si capisce il motivo”.
Il fondo oscuro di ognuno, gli enigmi che ci portiamo dentro, le motivazioni primarie da cui nasce il nostro modo di pretendere affetto, lo smascheramento dell’ipocrisia corrente nei rapporti tra i sessi. E ancora, brume immaginarie tropicali, malinconie di memorie passate, fughe etiliche, fumi e velluti da night club decaduto. E’ il Mocambo, mille volte abbandonato e altrettante ritrovato. La Francia uggiosa e il luminoso Sudamerica, ragazzi-scimmia e diavoli rossi pronti ad affrontare ogni sfida e dimenticare la (vecchia) strada.
Qualcuno potrebbe domandarsi come fa Paolo Conte a inventarsi ogni volta accostamenti del genere, specialmente ora che ha raggiunto un’età in cui, dopo tanto tempo, dovrebbe avere anche smesso di cercare l’Africa in giardino. La fantasia, una profonda umanità e il talento nell’arginare in extremis i peggiori svolazzi lirici potrebbero diventare risposte tutto sommato accettabili. I suoi testi, col tempo sempre più stilizzati, confermano in effetti un’unica grande verità: per raccontare una storia, gli bastano tre frasi. Alle persone normali ne occorrono almeno trenta. Paolo Conte è l’esempio migliore di come si possa mettere in scena una piccola drammaturgia in sola una canzone. Il resto è musica che avvolge, riveste e descrive tutto ciò che non viene scritto. Raffinata, certo, nel suo vestito, ma di pancia, imbastita spesso su pochi accordi, graffiata da riff semplici e sublimi, impreziosita dalla sua voce popolana da oste o tranviere. Emozioni trasversali per ogni tipo di ascoltatore che resta trafitto da cartoline intrise di languore, esotismo e disperazione.
Dopo aver scritto (per altri) alcune tra le pagine più belle della musica italiana (“Azzurro” di Celentano, “Messico e nuvole” di Jannacci, “Insieme a te non ci sto più” per la Caselli, “Onda su onda” di Bruno Lauzi, “Tripoli 69” per la Pravo), Conte non ha rinunciato alla sua intelligenza e alla sua sensibilità nemmeno dopo la consacrazione avvenuta negli anni Ottanta, quando abbandona la professione forense per inseguire l’Utopia, irrispettosa e caduca, che non scende mai a patti col reale. Come ogni sogno, ogni desiderio superato, qualcosa tra le maglie della vita e i filtri del cuore, sempre superiore al tempo che scorre.
A 78 anni sembra ormai impegnato a rifinire con la solita classe una sorta di biografia del crepuscolo, allegra nei toni ma amara nel retrogusto, in parte sincera e in parte trasfigurata, tesa verso un limite di bruciante rottura, poi subito in ritirata dentro i territori familiari dell’autocitazione, delle antiche passioni e paure, di ricordi di una terra amatissima che sfidava l’orizzonte alla ricerca del mare bramato e temuto. Paolo Conte dispone di una magia antica che fa scorrere meglio il sangue nelle vene. Nello spettacolo d’arte varia nessuno lo ha mai raggiunto, perché la sua è una vetta creativa che si scala in solitaria e noi possiamo solo ammirarla con il naso all’insù come i cani che fiutano il vento. Un italiano grande come il mondo stesso della musica, del jazz, delle donne e del vino. Il maestro è (ormai) nell’anima e dentro all’anima per sempre resterà.

#music #paoloconte #ischia

text_Gianluca Castagna | photo_ Enzo Rando

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