33/2012
Text: Riccardo Sepe Visconti
Con la scomparsa di Domenico Di Meglio, fondatore, anima e cuore del quotidiano locale, Il Golfo sembrava destinato ad un’inevitabile battuta di arresto. Non era affatto semplice riorganizzare la redazione e dare un senso di continuità, pur rinnovandolo, ad un foglio così incisivamente caratterizzato dallo spirito del precedente Direttore. Pasquale Raicaldo, invece, è riuscito con estremo garbo (è uno dei suoi tratti più marcati) e, nel contempo, solida pacatezza a ricondurre gli asperrimi dibattiti e le polemiche nell’alveo di un confronto anche serrato, ma strategicamente più costruttivo. E’ appunto di questo che si occupa Pasquale, trasformare il quotidiano da disordinata cassa di risonanza del popolo in palestra di pensiero che talvolta si dà anche un compito educativo. La voce di Raicaldo è una voce spesso scomoda che, forte di uno strumento autorevole quale Il Golfo è sicuramente, osserva con severità il lavoro degli Amministratori locali e, spesso, li redarguisce con l’intenzione di renderli migliori. Si può condividere o no il suo pensiero, ma certamente gli si deve attribuire un profondo spessore di onestà intellettuale e, soprattutto, la voglia di battersi in punta di penna per garantire che la voce di Ischia resti sempre vigorosa, indipendente e perfettamente radicata nel popolo dei suoi lettori. Qual è il tuo percorso professionale? Ho frequentato la redazione del Golfo da quando avevo 13 anni, e per me era una vera emozione: andavo in redazione con un amico, avvicinandomi alle dinamiche di un piccolo giornale, che per me era un grande mondo tutto da esplorare. Ho avuto un’esperienza anche con Teleischia, ma la frattura determinante nel mio percorso di formazione l’ha costituita la scelta di andare a studiare lontano, a Torino. Allora, le distanze avevano un’incidenza maggiore rispetto ad oggi, che abbiamo gli aerei low cost e i treni ad alta velocità. Tornavo a casa, sull’isola, solo ogni due o tre mesi, segno che l’ambientamento nella città e nei suoi circuiti universitari era stato decisamente positivo. Sono rimasto a Torino, città che ho amato, fino a 25 anni, laureandomi e lavorando per due anni, con un’esperienza anche a Milano. Dopo la laurea hai lavorato come giornalista? Non solo: ho avuto due esperienze che reputo fondamentali, come analista televisivo per il programma Rai “TV Talk” e con l’Enciclopedia Treccani, per la quale lavoravo all’aggiornamento delle voci biografiche. Allora, per scrivere poche battute dedicate ad un personaggio, magari anche minore, era necessario un lavoro certosino che durava giorni: oggi, per un articolo di 12mila battute spesso ho a disposizione solo un paio d’ore. Ma quella è stata un’esperienza che mi ha fatto comprendere l’importanza dei dettagli e della precisione, anche nel lavoro di giornalista. Poi, ho scelto di ritornare perché si era prospettata la possibilità di svolgere il praticantato per diventare giornalista professionista, lavorando per il giornale sportivo “Napolissimo”, esperienza grazie alla quale ho sostenuto l’esame di Stato. E così sono arrivato ad oggi: da un anno e mezzo sono coordinatore de Il Golfo. Perché hai deciso di lasciare una grande città come Torino per tornare a Ischia? Direi per una serie di situazioni concomitanti: da una parte il contratto a progetto era scaduto e non sarebbe stato rinnovato, dall’altra l’offerta di lavoro a “Napolissimo” che mi consentiva di effettuare il praticantato, lasciapassare possibile per una dimensione nazionale. Sei rammaricato di essere rimasto qui dopo aver conseguito il titolo di professionista? No, perché non considero mai le scelte come definitive. Ed è, questo, un limite ed una risorsa, allo stesso tempo: un limite, in quanto mi allontana dai progetti a lungo termine; un vantaggio, in quanto riesco a essere molto concentrato sul presente, a calarmi bene nella situazione lavorativa del momento, affrontando i problemi per gradi. Dall’osservatorio privilegiato costituito dal quotidiano locale, dammi una valutazione dell’attuale crisi che vive Ischia. E’ desolante. Ciò che emerge maggiormente è la scarsa fiducia nel futuro, i giovani ischitani non sognano e, quando lo fanno, sono costretti ad emigrare. Il sistema chiede assuefazione e cloroformizzazione. Riceviamo continuamente denunce del tipo: “non veniamo pagati da 3 mesi”, “la società municipalizzata non paga gli stipendi”, “sono laureato e non trovo lavoro”. Le imprese non sanno investire nella formazione, o non vogliono farlo. Pensi che questa tendenza possa invertirsi in tempi ragionevolmente brevi? Sicuramente c’è una congiuntura negativa che investe tutta l’Italia: gli amici con cui sono rimasto in contatto a Torino, Milano, Roma mi raccontano quotidianità difficili dal punto di vista lavorativo. Ma, se è vero che “toccato il fondo non si può che risalire”, per riuscirci si devono innescare meccanismi virtuosi di cui – ora come ora – non si intravede l’avvio. Chi ha, secondo te, la responsabilità di innescare questi meccanismi? La politica deve svolgere la sua parte, superando la forte cesura che c’è fra politica e cittadinanza. Una distanza che trova una conferma paradossale proprio nel risultato delle ultime Amministrative: infatti, successi plebiscitari come quello conseguito nel comune di Ischia lascerebbero supporre una certa soddisfazione per l’attività dell’Amministrazione che ha governato negli ultimi 5 anni ed è stata pienamente riconfermata. Invece, all’indomani delle elezioni le lamentele inviate al giornale sono quadruplicate e, almeno in parte, hanno una diretta connessione con gli ambiti di competenza della politica. Mi riferisco al low-cost nel settore del turismo e del commercio, alla mancanza di una pianificazione nella gestione delle zone strategiche del paese, come il Corso e le vie principali. Ugualmente ai Maronti, nel comune di Barano, dove pure il Sindaco uscente è stato riconfermato, dopo che lo scorso anno gli stabilimenti e ristoranti sono stati chiusi con grande clamore (N.d.r. La chiusura era dovuta ad irregolarità riscontrate nella gestione dello smaltimento delle acque reflue; dopo una serie di interventi le strutture furono autorizzate a riaprire), pochi giorni fa abbiamo verificato come nulla sia cambiato, l’acqua continua ad essere indecente e i turisti stavano sulla riva della spiaggia più grande dell’isola, indecisi se bagnarsi oppure no. Ecco, questo è un lusso che Ischia se vuole risalire la china non può concedersi più: esistono delle priorità e – sarò banale! – la depurazione è certamente una di queste. Stesso discorso vale per la qualità mediocre, per non dire spesso insufficiente dei servizi di trasporto, sia terrestre che marittimo, per i quali negli ultimi anni abbiamo assistito ad un’inesorabile perdita dei livelli di efficienza che erano stati raggiunti. Un vero paradosso, se consideriamo che avremmo un interlocutore isolano, Domenico De Siano, alla Regione, e con lui Giosi Ferrandino, alla Provincia. Ecco, ciononostante, non sappiamo chiedere quel che sarebbe lecito pretendere, considerato l’apporto di Ischia al Pil della Campania. Siamo sicuri che la politica debba essere caricata di tutte queste responsabilità? L’impresa fa la sua parte? Sicuramente, l’impresa a Ischia vive di divisioni anacronistiche e si mostra incapace di intraprendere azioni collettive. Spesso le scelte delle diverse categorie sono solo all’insegna del “mors tua vita mea”: ecco, vedo il Problema – con la P maiuscola – nella incapacità quasi atavica degli imprenditori di “fare sistema” e di individuare soluzioni, non ne parliamo poi di condividere delle linee di azione. E’ sufficiente che uno faccia una scelta perché, subito, 3 o 4 suoi colleghi ci chiamino, magari senza neanche uscire allo scoperto, accusandolo di essersi mosso solo per il proprio interesse personale. Quest’invidia latente e l’incapacità di mettersi attorno ad un tavolo – bloccati spesso l’uno dalla personalità dell’altro, dalla sua storia, da chi potrebbe avere alle spalle – credo siano un fardello insostenibile contro la crescita del paese. Questa litigiosità perenne ha per anni alimentato anche i contenuti de Il Golfo, che riflette bene gli orientamenti della società ischitana. Veniamo, allora, al tuo anno e mezzo di coordinamento del quotidiano locale: ha modificato il tuo sguardo sull’isola in cui sei nato? L’osservatorio costituito dal Golfo mi permette, direi anzi obbliga, a venire in contatto con tutti gli attori sociali che si muovono nell’isola. Negli anni di assenza dall’isola, invece, il mio sguardo su Ischia era diverso, volto ad una idealizzazione. E quando tornavo, mi trasformavo in un Cicerone per mostrarne gli angoli più belli ad amici e ospiti, senza penetrare nel cuore della comunità ischitana. Se potessi muoverti in piena libertà, dove vorresti portare Il Golfo? Che funzione gli daresti? Il Golfo nasce 23 anni fa: il suo radicamento è figlio di un periodo storico decisamente diverso dall’attuale, quando non esisteva Internet e la tendenza voyeuristica poteva essere assecondata solo dalla stampa. Ebbene, i lettori che si sono legati al Golfo oltre vent’anni fa, oggi vanno verso un’età avanzata, e sta cambiando il target dei potenziali fruitori del giornale. Impensabile, dunque, che il giornale non si apra a nuovi strumenti, rendendosi appetibile a una fetta di lettori che quegli strumenti usa moltissimo, una realtà forte sul territorio come Il Golfo non può prescindere dalle novità tecnologiche (la rete, Facebook, le App per smartphone) e dai suoi utilizzatori. Le tendenze mondiali parlano di un calo dei lettori del quotidiano tradizionale, mentre le maggiori testate italiane hanno portali visitatissimi, né ciò incide in maniera più di tanto negativa sui dati di vendita dei giornali cartacei. La sfida che va raccolta quanto prima è di rendere Il Golfo vicino – sia nel linguaggio che nell’impostazione – a chi predilige questi strumenti al giornale che si acquista in edicola per informarsi. Mi piace dividere i quotidiani in due grandi categorie: nella prima colloco i giornali che sono nati per rappresentare un gruppo politico, il loro scopo è dare voce e prestigio a una parte e se sono economicamente in perdita, è poco rilevante; alla seconda appartengono, invece, i quotidiani che riescono ad avere una raccolta pubblicitaria forte per cui sono delle vere e proprie aziende con un bilancio in positivo, è il caso di testate come Il Corriere della Sera e La Repubblica. Ora, il quotidiano a Ischia non può basarsi certo sugli introiti pubblicitari per motivare la propria esistenza, né – però – Il Golfo è riuscito a farsi portavoce di un gruppo politico in maniera persuasiva. Ha costituito una riprova di ciò, il fatto che l’imprenditore di riferimento del giornale, Antonio Pinto, candidato nella lista UDC alle ultime elezioni, non se ne è avvantaggiato minimamente in termini di consensi elettorali. E, peraltro, neppure il suo storico fondatore e direttore Domenico Di Meglio, quando si candidò ebbe buoni risultati. La lettura che do di questa realtà è che entrambi non hanno espresso una progetto politico chiaro da comunicare attraverso il giornale che, finora, probabilmente non è mai stato usato come strumento politico. Appare, quindi, come un ibrido, non è né una macchina per fare soldi, né uno strumento per raccogliere consenso politico. Sì, è un caso singolare: miei colleghi e docenti universitari con cui ho discusso del “fenomeno Golfo” si interrogavano su come un quotidiano possa andare avanti in un’isola, e il problema principale loro lo individuavano nella produzione delle notizie. Il non legarsi a interessi, a logiche di finanziamento partitico, a volti riconoscibili, credo che più che un limite del giornale, sia stato il suo punto di forza. Al punto che durante l’ultima campagna elettorale, per quanto sia un diritto innegabile per un giornale avere un indirizzo editoriale, una linea autonoma, ragionata e circostanziata, come i lettori sanno, c’è stato anche chi ha detto: “Non è nella storia del Golfo avere una sua linea”. Ciò significa che la gente si aspetta che Il Golfo tenga una posizione terza, gli si riconosce un’autorevolezza che prescinde dalle situazioni. Né credo che per Giosi Ferrandino aver avuto dalla sua una velina informativa patinata di dubbia credibilità abbia, nel periodo elettorale, portato benefici alla causa. Il giornalismo deve portarti a riflettere e ad avere senso critico, non fornirti soluzioni preconfezionate a uso e consumo di chi ne regge, eventualmente, le fila. Qual è la tua posizione politica personale? Ho come punto di riferimento l’insieme dei valori rappresentati dall’area del centrosinistra: welfare, progressismo, integrazione degli stranieri, ecologie, energie rinnovabili, unioni di fatto, e se dovessi fare il nome di un politico, direi Nichi Vendola, anche se sto cercando di capire quanto possa essere spendibile. Credo molto nel fatto che un giornale abbia anche un compito educativo e, quindi, delle responsabilità nei confronti dei lettori: sei d’accordo? Certo, la storia dell’isola – così come quella della nazione – ci parla del valore formativo dell’informazione: pensiamo solo al ruolo che ha avuto la TV nel diffondere la lingua italiana! E sono altrettanto convinto che il giornale, come gli altri media, non debba essere uno specchio fedele della società, ma piuttosto rappresentare l’obiettivo cui si tende, incarnarne la parte migliore. E lo dico a prescindere dal Golfo che coordino: se gli ischitani sono molto litigiosi, non significa che il loro quotidiano debba essere imperniato sui litigi, anzi deve mostrare come e perché sia controproducente vivere di divisioni. Stimolare, analizzare e usare un linguaggio studiato, non eccessivamente forbito ma neppure sciatto e superficiale, sono cose alle quali tengo molto. Ma ciò che è essenziale è che il giornale non nasconda i fatti, non deve accadere mai: né perché costa fatica trovare le notizie, né per evitare rogne, né per timore di querele, né perché – se fa emergere situazioni sentite scomode – non lo invitano più in certi salotti. Questo, per chi fa il giornalista, è intollerabile. Ti consideri un combattente nel tuo lavoro? Ci sono tanti modi di combattere: Domenico Di Meglio era un combattente con la corazza e lo scudo, armato non della penna intinta nel calamaio della borghesia ma con il coltello fra i denti. E’ però indispensabile non lasciarsi imbavagliare, né addolcire: il potere logorerà anche chi non ce l’ha, ma troppo spesso obnubila chi gli sta intorno. E come diceva Benedetto Croce: “ogni mattina il giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno”. Farlo, però, con gli strumenti e lo stile di vent’anni fa vorrebbe dire non comprendere che i tempi sono cambiati. Ti stai riferendo al figlio di Domenico Di Meglio, Gaetano, che fa un giornalismo molto aggressivo? Posto che non mi sembra, il suo, un giornalismo particolarmente aggressivo, direi di no: mi riferisco sempre e solo al Golfo. Ci sono situazioni in cui il giornalismo può essere ‘di pancia’, in cui è necessario – senza girarci attorno – fare titoli come “Giù le mani dall’eliporto”. E quando c’è da vergognarsi, titoleremo “Vergogna!”. Ma non è necessario usare parole come “merda” o scrivere “munnezza”. Questo tuo essere meno sanguigno nell’approccio ai temi affrontati dal giornale rispetto ad una tradizione molto impetuosa del Golfo, ti dà problemi? La gente si aspettava da te una impostazione alla Domenico Di Meglio? Sicuramente, ci ho messo del tempo per far emergere la mia idea di Golfo e il mio stile nel coordinare il giornale: una persona più diretta avrebbe imposto subito le sue scelte. Dopo i primi 6-7 mesi, però, i risultati nelle vendite e gli attestati di stima che mi sono giunti, anche da persone che non considero particolarmente amiche, mi hanno confermato che sono sulla strada giusta e che, al di là delle etichette, molti sono attenti anche ai contenuti e alla credibilità. E questo è incoraggiante per il futuro del giornalismo, in senso generale. Quanto ti ha cambiato – anche nella tua vita personale – essere il coordinatore de Il Golfo? Molto: è un’esperienza totalizzante, perché diventi un punto di riferimento per la gente. E così succede che anche la sera tardi ti fermano, per esempio in un locale, per raccontarti dei loro problemi, e si aspettano disponibilità a recepire le loro istanze, in un flusso continuo. E’ un lavoro che diventa un modo di vivere, o lo abbracci completamente o non lo fai. Una delle rinunce più dolorose che ho fatto è alla possibilità di viaggiare, tanto più perché mi sono avvicinato al giornalismo proprio per diventare un reporter, colui che arriva in un luogo che non conosce e lo racconta. Con il quotidiano locale faccio l’inverso, racconto una realtà che conosco bene. Come possono Pasquale Raicaldo attraverso Il Golfo – e Il Golfo stesso – avere una parte nella risoluzione dei problemi dell’isola d’Ischia? Il nostro ruolo deve essere quello di alimentare il dibattito: negli ultimi mesi abbiamo avuto l’impressione che parte della popolazione sia addormentata. Ci si limita alla denuncia di un diritto negato, per esempio, ma nel processo di rivendicazione di quel diritto – che sia sindacale, al benessere, alla salute, al lavoro, tutti non a caso costituzionalmente garantiti – c’è qualcosa che non funziona, le denunce sono quasi sempre anonime e anche chi viene mostrando la sua faccia ci chiede la riservatezza, per timore di ritorsioni. E’ la sconfitta dell’associazionismo e dei sindacati, ma anche la sconfitta della politica tra la gente. Il giornale non deve limitarsi a dare voce a questi disagi, quando sono reali: vorrei che fosse soprattutto uno strumento che aiuti la popolazione a prendere consapevolezza di ciò che le spetta e aiuti le persone che rivendicano i medesimi diritti a diventare comunità. Come Golfo, cerchiamo di sostenere la ricerca di soluzioni condivise in ambiti strategici come il turismo, i trasporti, la sanità e al di sopra di tutto c’è il lavoro, il nodo più arduo da sciogliere.