Friday, November 22, 2024

23/2008

Photo: Enzo Rando
Text: Giorgio Di Costanzo

 

Non mi ci provo neanche a racchiudere, comprimere la vita (bellissima), la scrittura (eccellente) e il rapporto amicale (profondo) che ci ha legati. Ho sempre pensato che invecchiando avrei potuto averla ancora accanto e invece, no. Venerdì 6 giugno l’ho chiamata per chiederle alcuni chiarimenti su un personaggio del suo romanzo “Un giorno e mezzo”, che stavo rileggendo, nella realtà era stato il mio insegnante di Scienze. Mi disse che a giorni sarebbe uscito un nuovo libro e come sempre me l’avrebbe mandato. No, non sarebbe tornata a Ischia. Mi aspettava a Itri, a casa sua. Da quando ci siamo conosciuti mi aveva inserito in un elenco (ristretto) di amici che ricevevano i suoi libri. E’ qui sul tavolo, “La via” (pubblicato come tutti i titoli importanti da Einaudi). Per la prima volta senza dedica, che lei metteva in alto a destra, con calligrafia minuta. Non ha fatto in tempo. Poche ore dopo la pubblicazione Fabrizia ha concluso il suo viaggio, su una spiaggetta nei pressi di Gaeta lunedì 23 giugno 2008, subito dopo aver fatto un bagno. Prima di Itri, eletta a dimora dopo che Napoli fu colpita dal terremoto nell’80, c’erano stati nella sua esistenza movimentata e nomade, che è diventata appieno materia dei suoi libri, tanti luoghi e molto di più, tante lingue che aveva fatto proprie (padroneggiava benissimo spagnolo, francese e tedesco), tante visioni della vita che aveva esplorato. “(…) Mio padre era console. Prima che io nascessi era stato tredici anni in Cina, poi si sposò a Napoli con una napoletana-umbra di famiglia borghese e colta e quando avevo pochi mesi (ndr. Ramondino era nata a Napoli nel 1936) ci condusse a Maiorca; era appena scoppiata la guerra di Spagna e l’isola divenne una buona base strategica. Con l’armistizio del ’43 andammo a Madrid e poi da Gibilterra con una nave da guerra tornammo in Italia. La nave riportava in patria gli italiani di Spagna che dopo l’armistizio avevano optato per Badoglio. A Tangeri tutti gli uomini, anche mio padre, furono fatti prigionieri dagli inglesi e la nave proseguì con le donne e i bambini. Andammo a vivere nella penisola sorrentina. Dopo il suo ritorno mio padre lavorò a Roma e nel ’48 in Savoia a Chambery, dove morì nel 1950. Poi ci trasferimmo a Somma Vesuviana…”. In seguito ci sarà il lungo soggiorno di studio in Germania, ma anche un viaggio solitario in autostop attraverso la Penisola nel 1958 e infine il ritorno a Napoli, nello splendido Palazzo Spinelli di Via dei Tribunali (in cui Liliana Cavani girò alcune scene de La Pelle ), dove rimase fino al terremoto appunto.
L’ho conosciuta sul Castello Aragonese, il 18 maggio 1996. Mi avvicinai per dirle che “Althénopis” (cioè ‘occhio di vecchia’, che era il modo in cui i tedeschi occupanti chiamavano la città di Napoli), era tra i miei romanzi preferiti, della mia sconfinata ammirazione e dell’amicizia per Anna Maria Ortese, delle mie letture e subito dopo iniziai a parlarle del progetto di un’antologia di testi d’autore su Ischia. Il modello, naturalmente, era “Dadapolis – Un caleidoscopio napoletano”, brani sulla città di poeti, scrittori, studiosi, artisti, politici, filosofi, viaggiatori, eruditi da lei raccolti (con Andreas Friedrich Mueller). Ci incontrammo, in quella tarda primavera, moltissime volte. Passeggiando per le strade dell’isola, fermandoci in qualche bar, attardandoci non poco nella libreria La Gaia Scienza iniziò una grande amicizia. Veniva a Ischia per curare una depressione dal prof. Alfonso Gaglio, uno psichiatra allievo di Franco Basaglia. Gaglio durante i pochissimi anni trascorsi sull’isola ha meritoriamente creato a Ischia Porto e a Barano due strutture che trattano le malattie mentali, quando è andato via la scrittrice ha diradato le sue visite. L’ultima volta, nel mese di maggio dello scorso anno, fu ospite di una signora spagnola: mi invitò a cena e desiderava cucinare per me.
Quando anni prima fece la prefazione alla mia antologia dedicata a Ischia, le sue parole, oneste, reali, concrete destarono polemiche e chiusura da parte dei settori più ottusi e reazionari dell’intellettualità isolana. I ‘poetessi’ locali, punti sul vivo e rosi dall’invidia per non averci pensato prima loro stessi ad approntare un’opera del genere, fecero ‘ammuina’ per il tono scanzonato, semplice e diretto della scrittrice. “E’ difficile immaginare oggi che poeti e scrittori vengano a Ischia in fuga dalle metropoli e dai nord, ai quali è sempre più simile, come la maggior parte delle nostre coste peninsulari e insulari: cemento e asfalto hanno distrutto il paesaggio; auto, motorini, discoteche, motoscafi, radioline, stereo, hanno invaso barbaramente il silenzio; l’incuria, la brama di profitto rapido e senza legge, la scostumatezza hanno inquinato il mare, lordato le spiagge e le strade. (…) Certo, in particolare lontano dalle coste, ci sono ancora dei luoghi integri, come il bosco della Falanga, le località Serrara, Fontana, Ciglio, con i loro lussureggianti terreni coltivati, il giardino di villa Walton ‘ La Mortella ‘, il quartiere di S. Alessandro, la Scarrupata , lo Schiappone, Chiummano, la Guardiola a Testaccio, la pineta di Fiaiano con la sua graziosa chiesa; o incorporate nel cemento, attorniate da mille rumori meccanici, delle piccole enclaves monumentali o di antiche case, come il Castello Aragonese, la chiesa del Soccorso a Forio, la chiesa dell’Addolorata alla Mandra, le case dei pescatori a Ischia Ponte. Ma per potere apprezzare questi luoghi bisognerebbe essere dotati di un congegno mentale particolare, che ti rendesse cieco e sordo dinanzi alle brutture, e ti restituisse vista e udito solo davanti alla bellezza. (…) Quanto a me, non vengo a Ischia per scrivervi ma per curarmi”.
A proposito del suo lavoro mi disse: “essere scrittore è da un lato un’ossessione-passione, dall’altro un mestiere. E’ anche un recupero della memoria, perché un vero futuro può scaturire soltanto dalla memoria del passato”. E la sua attività di scrittore si sostanzia della materia autobiografica, dell’esperienza personale che diventa narrazione mentre quest’ultima scorre parallela alle vicende della vita. Così le origini aristocratiche della famiglia la spinsero a clamorose rotture. In una vecchia intervista Fabrizia racconta di quel periodo (ndr. Inizi degli anni ’60): “Io volevo impegnarmi in attività sociali. Questo l’ho capito attraverso una lunga depressione, da cui sono uscita – da sola – attraverso la scoperta di Napoli. Una cameriera di mia madre, della mia età, madre di tanti bambini, vedendomi stare così mi disse: ‘Perché non vieni ad aiutare i miei figli che vanno tanto male a scuola?’ Andai a casa sua in un vicolo a fare lezioni private ai suoi bambini; fu subito una cosa più larga, perché venivano i loro amici, e poco a poco divenne un grosso doposcuola per i bambini delle elementari e la scuola serale per analfabeti…”. Questa attività, che l’assorbì per sei anni con la creazione dell’Associazione Risveglio Napoli, è rievocata nel libro “L’isola dei bambini”.
La sua vita e la sua scrittura è stata un continuo viaggiare, attraverso la propria storia e quella delle altre esistenze incontrate o cercate nel suo muoversi, o ancora immaginate. Dalle donne con problemi mentali di “Passaggio a Trieste”, alle stratificazioni di uomini epoche e sogni che ruotano attorno alla piccolissima Ventotene in “L’isola riflessa”, alla scoperta del mondo disperato dei profughi del Saharawi in “Polisario. Un’astronava dimenticata nel deserto”, all’ultimo “La via”. Senza dimenticare la sua città: scrisse con Mario Martone la sceneggiatura di “Morte di un matematico napoletano” e con Rossana Rossanda “Bagnoli. Lo smantellamento dell’Italsider”. I suoi scritti sembrano dirci che la vita non è altro che un concatenarsi di storie, grandi e minime che lei, con le sue doti di affabulatrice nata, riusciva a colorare e rendere sontuose.

Fabrizia mi manca già molto…