Friday, November 22, 2024

PERCHÉ LA PIZZA È SCIENZA

Interview_ Riccardo Sepe Visconti Photo_ Riccardo Sepe Visconti

Una lezione di pizza che racconta una filosofia, un modo di intendere la cultura in cui è nato e in cui crede, i secoli di tradizione che ha dietro di sé, il proprio lavoro: tutto questo e molto di più, a saperlo leggere, nelle parole di Enzo Coccia, uno fra i più grandi pizzaioli partenopei – e quindi del mondo – il primo “che si è ribellato alla tradizione che voleva la pizza condita con quello che capitava. E oggi ne siamo tutti contenti”, come ha ben scritto il foodblogger Vincenzo Pagano nel suo sito dedicato al cibo Scatti di Gusto. E se Coccia è il maestro riconosciuto del rinascimento della pizza napoletana, che vuole la qualità a monte di tutto, lui prosegue per la sua strada di ricerca continua, nella convinzione che un piatto deve essere frutto in primo luogo di un’idea. Intanto, dal 1994 ha aperto tre locali a Napoli: La Notizia, il suo primo, lontano dal centro storico, a via Caravaggio; nel tempo se ne sono aggiunti altri due, di cui uno dedicato alla più popolare delle pizze napoletane, quella fritta (e non è un caso che la nostra Cecilia D’Ambrosio l’abbia scelta per la rubrica Coltelli Rosa), per soddisfare le richieste dei fans di Enzo Coccia, che lassù ci arrivano da tutto il mondo.

L’importanza del riconoscimento Unesco è tale da costituire uno spartiacque: la pizza diventa cosa diversa dopo la consacrazione dell’arte dei pizzaioli come bene immateriale dell’umanità, per capirci un po’ come il mondo occidentale prima e dopo la nascita di Cristo! In che termini secondo te cambierà il modo di percepire questo cibo?

Per dirla da napoletano è come “vincere un terno al lotto”! E’ il riconoscimento della storia della città, cui viene assegnata ufficialmente la paternità della pizza. Attenzione, non dimentichiamo che nel 1807 Napoli contava già 56 pizzerie, ma quello dell’Unesco è un tributo alla figura sociale del pizzaiuolo, quest’artigiano, uomo o donna, che con la sua maestria, capacità, intelligenza ha giocato un ruolo fondamentale in passato nel garantire un cibo gustoso ed economico e, quindi, la possibilità di sfamarsi a tanti napoletani. Oggi il pizzaiuolo è ambasciatore di un piatto di qualità a livello planetario, perché se è vero che nasce come cibo povero, si tratta però di un prodotto sano, di qualità, che fa parte della dieta mediterranea, ad un costo contenuto. A Sidney o New York proporre la pizza a 15 o 18 dollari significa comunque tenerla a un prezzo popolare per quelle località, che consente a chiunque e dovunque di vivere un’esperienza gastronomica appagante senza spendere una fortuna.

Dal punto di vista di Enzo Coccia, cosa è il “bene immateriale” detenuto dall’arte dei pizzaioli?

Per me il patrimonio immateriale sono le canzoni scritte sulla pizza, le poesie su questo tema dall’800 a oggi, i testi di Salvatore Di Giacomo come dei viaggiatori del Grand Tour, i quadri di Palizzi, le stampe di Guglielmo Ciardi, le fotografie che hanno come protagonisti pizza e pizzaiuoli.

Anche le canzoni di Pino Daniele, allora…

Infatti! In una dice ”Fatte ‘na pizza c’a pummarola ‘ncoppa, vedrai che il mondo poi ti sorriderà”, frase che mi piace, la interpreto nel senso che è il mondo che si vuole “fare una pizza”, un patrimonio di cui tutti possono fruire, sia dal punto di vista gustativo che storico-culturale. Se le associazioni Vera Pizza Napoletana e Associazione Pizzaiuoli Napoletani, che hanno steso il regolamento necessario a presentare l’istanza ai 195 paesi che compongono l’Unesco, saranno in grado di gestire tutto questo, sarà una svolta – anche sul piano economico. L’errore che intravedo da parte dell’associazione pizzaioli è, però, quello di pensare a Napoli come il centro di tutto, Napoli può essere il centro del mondo se va in giro per il mondo. I pizzaioli sono i nuovi discepoli che dovranno andare in giro come ‘evangelizzatori’, insomma, un tempo partivano i bastimenti di emigranti, adesso devono essere i pizzaioli a partire e a raccontare le peculiarità di questo piatto. Le statistiche dicono, infatti, che solo il 3, massimo 4%, delle migliaia e migliaia di pizzerie esistenti si attengono ai canoni della vera pizza napoletana.

Grandi imprenditori del settore, come farina Caputo e la catena di ristoranti Rossopomodoro, con molta lungimiranza – direi un colpo di genio – hanno finanziato la campagna di raccolta firme e le attività che hanno condotto al riconoscimento Unesco.

Certo, tutte le campagne hanno bisogno di finanziamenti, in questo caso è stato assolutamente necessario perché il ministero delle Politiche Agricole ha sì accompagnato l’iniziativa come istituzione, mettendo a disposizione le ambasciate e i consolati, ma non ha supportato economicamente la campagna e c’era quindi bisogno di sponsor che, quindi, va detto, hanno dimostrato di avere visione sul futuro.

Ti faccio una domanda che è soprattutto una provocazione… Dovendo obbligatoriamente scegliere solo una delle due cose, Enzo Coccia preferisce il riconoscimento Unesco alla pizza o lo scudetto per la squadra del Napoli?

(Ndr. Lungo silenzio prima di rispondere). Come parte interessata devo dire il riconoscimento. Certo… Se fossi un napoletano che non fa il pizzaiuolo… E’ un bel dilemma… Mi faccio ammazzare per il calcio Napoli! (Ndr. E sospirando ride!)

Sono convinto che questo traguardo possa portare vantaggi al turismo nel suo insieme: la gente, infatti, sempre più sceglie le mete di vacanza anche in funzione della gastronomia, e se i luoghi dove si mangia bene vengono celebrati e l’arte di chi cucina è certificata addirittura dall’Unesco, ciò costituisce un valore aggiunto che può dare un ulteriore, fondamentale input al settore. Con evidenti ricadute positive per l’intero sistema, anche in termini di crescita dell’occupazione. Cosa tanto più essenziale in un territorio come quello napoletano che ha visto chiudere tante grandi industrie.

Sono d’accordo e ti faccio alcuni esempi che rendono chiaro come le cose stiano proprio così. Il tassista che preleva il turista al molo Beverello, al centro di Napoli e lo porta alla mia pizzeria (che dista diversi chilometri) costituisce un indotto, diverso, non legato al circuito dei nostri fornitori, ma comunque direttamente dipendente dal mio lavoro. E ancora, se un turista arriva qui per mangiare la pizza napoletana da Seul, perché magari ne ha letto su siti famosi, prenderà il taxi, appunto, e poi andrà al bar, soggiornerà in un hotel, farà degli acquisti, un’escursione a Pompei, ecc. Insomma, si crea un sistema enorme, una rete che è spontanea e porta benessere. Un altro scenario è il seguente: una pizzeria napoletana a Vancouver per realizzare la pizza dovrà acquistare i prodotti italiani, il pomodoro campano, l’olio della penisola sorrentina, i latticini, ecc. e abbiamo così un primo indotto diretto, costituito dalla vendita delle materie prime. Ma c’è un ulteriore passaggio. Mangiando quella pizza napoletana preparata a Vancouver, ci saranno persone che si incuriosiranno e decideranno di fare una vacanza qui, per vedere la città dove è stata inventata e questo flusso turistico andrà gestito dal punto di vista dell’ospitalità, dei servizi, dell’offerta museale e di intrattenimento, ecc. Finora un meccanismo virtuoso del genere è stato innescato in centri piccoli come quelli della Costiera, per esempio, adesso si tratta di farlo anche in una città di un milione di abitanti come Napoli.

E’ facile aprire una bella pizzeria a Positano o a Capri. Tu, invece, hai scelto via Caravaggio, certamente non una zona turistica della città, né una strada di passeggio, piuttosto la definirei un’anonima bretella di collegamento fra Fuorigrotta ed il Vomero. La tua, insomma, è stata una puntata che è un vero atto di fede. E d’altra parte, attività come quelle di Enzo Coccia possono creare un polo di attrazione anche per altri locali, contribuendo a rivitalizzare una zona della città.

Tutto questo è vero, ma attenzione, deve essere ben chiaro che si diventa attrattori quando si propone alta qualità, se fai un lavoro medio o mediocre non emergi sulla massa delle 1465 pizzerie che sono in città; e sono assolutamente convinto che come i miei locali vengono gestiti con il criterio della qualità, lo stesso, in grande, deve avvenire con il riconoscimento dell’Unesco, che va patrimonializzato puntando sull’eccellenza, della pizza, certo, ma anche di tutto il sistema dell’ospitalità a Napoli.

La pizza viene spesso proposta in forme che con la tradizione napoletana ha poco a che vedere, fino ad arrivare alle punte estreme costituite dalle grandi catene americane, che peraltro sono i più grandi produttori di pizza al mondo ed hanno grandissimo successo, soprattutto fra i giovani. Cosa pensi di questo fenomeno?

Il problema è l’informazione degli addetti ai lavori. Fin quando non avremo una legge nazionale per insegnare nelle scuole professionali cultura gastronomica, territorio, ingredienti, tecniche di lavorazione degli impasti, ma anche storia della cucina napoletana, abbinamenti di vini e birre, si continuerà a mettere qualsiasi cosa sulla pizza. Ma tutto ciò significa ricerca, lavoro, quindi fatica, e i giovani, anche i pizzaiuoli, rischiano di trovarsi ad avere troppi soldi troppo in fretta, e questo non li stimola a compiere un percorso dentro di sé. Gualtiero Marchesi a tal proposito mi disse una cosa bellissima: “Enzo, tu vuoi essere un manipolatore di dischi di pasta o un pizzaiuolo di pensiero?”. Quando sentii queste parole non capii che significavano, ho avuto chiaro solo anni dopo che un piatto è un pensiero, che si evolve, si trasforma. E diventa realtà. Ma si parte da un’idea. Se, per esempio, decido di mettere il baccalà sulla pizza, devo sapere come si dissala e si cucina, come si associa agli altri ingredienti, ecc. Tutto deve essere ragionato, studiato.

Qual è stato il contributo che Enzo Coccia ha dato e dà tuttora al mondo della pizza? Io penso che tu sia una delle persone che ha concorso maggiormente a trasformare l’arte del pizzaiolo in scienza: sei d’accordo?

Sì, è così. Già nel 1995-96 ho lavorato attraverso l’Associazione pizzaioli al disciplinare per stabilire le caratteristiche che doveva avere la pizza per definirsi “verace pizza napoletana”. Poiché l’UE non consente di stilare un disciplinare con ingredienti che non siano a loro volta certificati, in quegli anni andavo in giro fra contadini e produttori per individuare i prodotti dop da inserire nel disciplinare, pomodori San Marzano, oli, latticini. Grazie a questo lavoro, ho messo a fuoco che una pizza realizzata con questi prodotti eccellenti è una pizza eccezionale; e la domanda successiva che mi sono posto è stata: qual è la differenza di costo fra una pizza fatta con prodotti scadenti e una con prodotti di qualità? La risposta è: pochi centesimi! E dal punto di vista del gusto? E’ ottima, da 1 a 10 merita 10, mentre il costo rispetto a quella con ingredienti mediocri sale in maniera minima. Allora, si presentò il problema che sulla pizza STG (Specialità Tradizionale Garantita) non potevamo mettere il fiordilatte, perché i produttori di Agerola (Ndr. Da lì proviene il migliore fiordilatte campano) non hanno mai voluto stendere un disciplinare, in quanto molti di loro utilizzano latte che non è del posto. Quindi, il presidente dell’Associazione Verace pizza napoletana Antonio Pace, il signor Brandi ed io proponemmo di usare la mozzarella di bufala. I pizzaioli non erano d’accordo, chi diceva che rilascia troppa acqua, chi che è troppo costosa. In realtà, quello che emette è una sorta di latte, e poi devi saperla tagliare e far rassodare e in questo modo funziona eccome sulla pizza! Adesso non c’è pizzeria che non la adoperi, perché hanno compreso che è un prodotto controllato, certificato e buono, che si sposa bene con il pomodoro San Marzano o con quello del piennolo. Ma non è detto che non si possa realizzare una pizza di qualità con il fiordilatte, devi trovare il produttore che ci metta la faccia. La qualità non è un concetto astratto, non è un abito che ci si mette addosso, parte dal di dentro delle persone. Qualità vuol dire che se una pizza esce dal forno bruciata, devi avere il coraggio di buttarla, lo stesso se per esempio c’è troppo pomodoro o troppo olio. Questa è la qualità che senti come realizzazione personale.

Preferisci insegnare cosa è una pizza di qualità ai clienti o ai pizzaioli?

Preferisco farlo capire ai clienti. Perché sono loro, diventando più consapevoli e quindi più esigenti, a spingere i miei colleghi ad innalzare il livello del loro prodotto, ad adeguarsi, nel timore di non essere scelti dal pubblico. Lavorare sul cliente è molto più facile poiché rispetto al professionista del settore è un terreno incontaminato; con i pizzaiuoli impieghi molto più tempo per conseguire gli stessi risultati. Un ruolo determinante lo ha rivestito anche la comunicazione: io da solo sono in grado di raggiungere qualche centinaio di clienti, ma grazie alla Michelin che nel 2009 ha scritto che nella piccola pizzeria di Enzo Coccia si fa la migliore pizza di qualità e al Gambero Rosso che mi ha inserito nelle sue classifiche, e attraverso i blog e i tanti programmi televisivi dedicati al cibo, il mio nome arriva a migliaia di persone.

Quali sono i criteri dirimenti per stabilire che una pizza è di qualità?

Per definire una pizza di qualità non basta soffermarsi sulle regole, sulla tecnica, si deve avere un approccio di fede: il pizzaiuolo, il cameriere, il servizio, il locale devono trasmettere amore per quello che si sta facendo. Non si deve ragionare solo dal punto di vista del cibo in sé, bisogna far sì che l’ospite stia bene anche nello spirito: a un turista giapponese che viene a provare la nostra pizza noi facciamo un trasferimento di cultura, raccontandogli cosa mangerà e comunicandogli tutta una serie di sensazioni che non sono puramente gustative. Ugualmente, se decido di andare io, napoletano, a mangiare un piatto di sushi, lo farò in un luogo dove sono capaci di mettermi in sintonia con ciò che sta alle spalle di quel cibo e che ne ha determinato la creazione.

Un’altra domanda provocatoria: posto che l’Unesco ha dato il suo riconoscimento nello specifico al modo in cui i napoletani fanno la pizza, una buona pizza napoletana la può fare un pizzaiolo che napoletano non è?

Quelli che preparano la pizza napoletana nel modo più vicino a come la facciamo noi sono i giapponesi, perché loro fanno lo sforzo di calarsi nella nostra cultura, e solo dopo apprendono la tecnica. Se chiedi a un pizzaiuolo nostrano quando è nata la pizza, spesso non lo sa, il giapponese che magari lavora in una pizzeria di Osaka e Kyoto, lo sa, è stato qui, ha fatto il giro delle pizzerie prendendo appunti, ha studiato. Conosco giapponesi che fanno pizza napoletana molto meglio di certi pizzaiuoli che sono nati a Napoli! E non lo dico solo da un punto di vista qualitativo, hanno sposato un credo. La napoletanità non è una residenza, ma un modo di essere che puoi vivere anche se non sei napoletano, una canzone come ‘O Sole mio o un’opera di De Filippo, per esempio Filumena Marturano, come una di Viviani viene sentita universalmente – anche se non sono state riconosciute come patrimonio immateriale. E lo stesso vale per la pizza. La pizza non deve essere intesa solo come un piatto, va considerata un mezzo per avvicinarsi alla cultura napoletana.

Accetti l’idea che possano esserci delle contaminazioni nel modo di prepararla?

Sì, stando attenti a tenersi entro certi limiti, anche la tradizione si evolve, diversamente diventa statica, una cosa morta.

A proposito di evoluzione, le normative europee hanno consentito nei primi anni 2000, con una deroga, di continuare ad installare forni a legna per cuocere la pizza napoletana, ma negli ultimi tempi e grazie a tecnologie più sofisticate si stanno producendo forni elettrici che simulano bene la cottura a legna, e sempre più questi forni si adoperano nei locali dei centri storici dove è spesso impossibile riuscire ad ottenere i permessi per il forno tradizionale. Tu cosa ne pensi?

Sono contrario! La pizza è un processo artigianale, composto da tante fasi: facciamo l’impasto a mano, selezioniamo gli ingredienti, e poi la tappa finale, la cottura nel forno a legna la eliminiamo?! Non è possibile, si tratta di un passaggio tecnico essenziale, che comporta per esempio la scelta della legna adatta nelle diverse fasi di accensione e poi di uso del forno e, quindi, una serie di competenze per cuocere a regola d’arte la pizza, che è frutto di esperienza plurisecolare. Mentre con il forno elettrico basta premere un pulsante, un’operazione solo meccanica.

Ma c’è l’esigenza di aprire nuove pizzerie e sempre più spesso non è consentito installare un forno a legna…

E’ vero, è capitato anche a me, volevo aprire a Hong Kong ma non mi hanno consentito di usare il forno tradizionale. Con il forno elettrico si farà una buona pizza, ma non sarà una vera pizza napoletana. Per riuscire a cuocere 5-600 pizze in un forno a legna senza bruciarle, ci vogliono anni e anni di esperienza; se di punto in bianco tronchiamo questo apprendimento da parte delle nuove generazioni di pizzaiuoli si perde un pezzo fondamentale di quella operazione culturale che è questo cibo.

Fra le tante primogeniture di Enzo Coccia, c’è quella di essere tornato a proporre il vino sulla pizza, invece della birra.

Opere ottocentesche come Il bettoliere di borgo Loreto di Francesco Mastriani e i libri di Gaetano Valeriani documentano che si beveva senz’altro il vino sulla pizza; la birra si afferma solo nel secondo dopoguerra. Vitigni autoctoni campani come greco, falanghina, fiano, aglianico, gragnano, piedirosso sono adatti, non vini più strutturati come barolo o valpolicella. Su una pizza con le alici, per esempio, metterei una falanghina, rigorosamente dei Campi flegrei, su salsicce e friarielli un aglianico, su quella col soffritto un gragnano. Il problema per noi è piuttosto gestire i costi del vino, maggiori di quelli delle birre rispetto al costo contenuto di un cibo come la pizza; e peraltro il rapporto fra birra e vino nelle scelte di chi mangia è comunque ancora del 90% a favore della birra.

Nel tuo nuovo locale, O’ Sfizio d’a Notizia alla pizza fritta accosti le bollicine: perché?

Perché l’untuosità connaturata alla frittura ha bisogno di freschezza e mineralità per pulire il palato, e spumanti e champagne sono perfetti.

Pizzaria La Notizia

Via Michelangelo da Caravaggio, 53 | Napoli – Tel. 081 714 2155

Enzo Coccia – Pizzeria La Notizia – www.pizzarialanotizia.com