Gli effetti collaterali della rete (preconizzati da McLuhan) si possono sintetizzare nel fatto che siamo diventati tutti cittadini di un solo, grande Villaggio Globale: un’unica collettività (divisa, ancora per poco, in sottogruppi) destinata ad amalgamare le diverse identità in un medesimo contenitore. E questi nuovi equilibri impongono regole di economia di sistema che spesso generano disorientamento (e crisi) nei sottosistemi non integrati o che scelgono di rimanere indipendenti (la Brexit ne è una dimostrazione lampante). Siamo, infatti, ancora al primo stadio di questa trasformazione e come tale viviamo la fase delle “reazioni di resistenza al processo di trasformazione”: è normale. Drammatico ma normale.
Le piccole comunità – dove per “piccola” intendo anche quella italiana con i suoi 60 milioni di abitanti, se paragonata al mondo intero che ne conta poco meno di 8 miliardi – temono (naturalmente) di scomparire e per opporsi al cambiamento non esitano a ricorrere a reazioni ostili, perfino brutali. L’atteggiamento più diffuso diventa la non accettazione, il rifiuto anche a voler solo provare a comprendere la portata dei nuovi valori da introdurre.
Ma rifiutarsi di aderire al sistema naturale dominante equivale a morire, è legge di Natura.
Le grandi trasformazioni in una comunità hanno possibilità di compiersi solo quando la novità proviene dall’esterno della comunità stessa, altrimenti non parleremo di “grande trasformazione” ma di più semplice “evoluzione naturale”. Le trasformazioni, in quanto repentine, spesso sono in se stesse violente. Queste forme di aggressività non assumono necessariamente connotati fisici, ma possono essere prepotenti nelle tempistiche e nelle loro espressioni culturali. Ma tutto ciò è necessario per cambiare, per adeguarsi ai tempi, dunque per sopravvivere, possibilmente riuscendo a farlo anche meglio di prima.
Il Rione Sanità, negli anni, non è mai riuscito ad uscire dal pantano in cui precipitò quando la costruzione del Ponte della Sanità isolò l’intero quartiere dal resto di Napoli, perché non aveva mai impattato con un “fattore esterno di cambiamento”: qualcosa o qualcuno che non fosse espressione di quel territorio, portatore in sé di “valori altri”, dunque molto diversi da quanto era possibile trovare all’interno di quella comunità e, al tempo stesso, capaci di integrarsi perfettamente nel tessuto locale. La grande alchimia sta proprio in questo: essere portatore di valori complementari, che non si contrappongono all’esistente ma che invece lo definiscono, lo migliorano, lo portano alla crescita (altrimenti impossibile).
Don Antonio Loffredo – il vero protagonista dell’inserto dedicato alla Sanità in questo numero di ICity – non è uomo della Sanità (ce lo racconta lui stesso). Proviene da altre esperienze (simili ma non uguali) ed infatti impiega del tempo per studiare le trasformazioni possibili. Ecco perché riesce nel suo progetto: egli porta qualcosa di radicalmente nuovo, che prima di lui non esisteva. Loffredo è “altro”, ma perfettamente in grado di fondere la sua diversità all’interno di un sistema che in tal modo si rafforza. Molto!
Lo stesso capita a quelle due realtà che, come spiegheremo diffusamente, sono i pilastri della grande trasformazione della Sanità stessa e di tutta Napoli: il MANN ed il Museo di Capodimonte, grazie ai quali è stato possibile raggiungere l’immenso successo turistico di tutta la Città. I due Musei sono infatti guidati da direttori “stranieri”, uno francese Sylvain Bellenger alla reggia di Capodimonte, l’altro toscano Paolo Giulierini al Museo Archeologico. Due personaggi che dimostrano quotidianamente di aver capito la Città e di saperla leggere con occhi disincantati ma creativi, capaci, quindi, di interpretarne i bisogni e costruirne le prospettive come nessuno mai era riuscito a fare prima di loro.
Ecco il grande successo di Napoli: chi ha un ruolo strategico (oggi) non è uno di noi!
Per tornare alla riflessione di partenza, bisogna considerare che fino a prima dell’avvento dilagante dei social lo sforzo di ciascuno di noi – per farsi accettare all’interno di una comunità – era quello di “mimetizzarsi”: apparire assolutamente identico. Ora che i social sfumano i perimetri di appartenenza, essere identico significherebbe essere marginale, inutile. Se provassimo ad estendere questo schema al resto della Città (e non solo) ci renderemmo conto che crescono quelle realtà che si lasciano interpretare in modo originale, creando frattura con il passato.
Con ICity ci siamo impegnati ad individuare i “portatori costruttivi di diversità” poiché siamo convinti che questa sia la strada giusta.
RICCARDO SEPE VISCONTI