32/2012
Altro che salotti televisivi ovattati, finte tribune politiche, tavole rotonde annacquate; al tempo del contraddittorio, fin dalla fine degli anni ‘40, le idee, i programmi, i partiti ed i politici si misuravano sulle pubbliche piazze, davanti alle proprie ed opposte tifoserie ed a gracchianti microfoni. In quelle condizioni c’era poco da infingere: o avevi la ‘vis pugnandi’ ed una apprezzabile dialettica o eri candidato all’obitorio della politica. Certo la dialettica la faceva da padrone, ma da lì a farla sboccare nella retorica il passo era breve, come dice Aristotele nella sua Retorica. E così, da opposti balconi assistetti al primo comizio tra un rappresentante della ‘Stella e Corona’ ed uno della Democrazia Cristiana. Non avevo ancora dieci anni, eppure ricordo che il monarchico durante il comizio era avvolto nella bandiera tricolore con lo stemma sabaudo, che strappò applausi e qualche lacrima quando raccontò di una sua visita a Cascais dove il Re era esule, ma ricordo anche che i voti li prese il democristiano. Ma erano le competizioni amministrative a ‘far scorrere il sangue’. E quelle di Barano e di Forio erano le più cruente. A Barano già si doveva superare l’accesa rivalità tra le frazioni, se poi aggiungevi la conflittualità tra le fazioni allora lo spettacolo era assicurato. A calcare il proscenio della politica baranese, per circa un trentennio, fu l’avvocato Giovanni Di Meglio a lungo Sindaco di quel nervoso territorio, di volta in volta incalzato dal principe del Foro isolano: l’avvocato Mario Buono. Che non scendeva in campo in prima persona ma era presente attraverso l’organizzazione di compagini alternative. Puntualmente sconfitte, tranne quando si trattò di adottare la candidatura di Arcangelo Mazzella a Sindaco: in quelle elezioni in un famoso comizio, partecipato da osservatori di tutta l’isola, Mario Buono si slanciò in una teorizzazione dello ‘shakerrismo’. Vista la desinenza in ‘ismo’ si pensava ad una sorta di neo-socialismo o di comunismo mascherato. Niente di tutto ciò. Lo ‘shakerrismo’ altro non era che la politica amministrativa incarnata a Barano dalla razza soprannominata ‘Shaker’. La demonizzazione del socialismo e del comunismo impose al Preside Cenatiempo, capofila di una lista di chiara ispirazione socialista, di spiegare cos’era il socialismo. Per fugare paure ed apprensioni non si ispirò a Turati od a Matteotti ma semplificò il tutto così: “Socialismo deriva dal latino ‘socius’, che vuol dire amico, quindi i socialisti sono amici del popolo e perciò non bisogna temere alcunché”. Ma fu il rapimento del simbolo ‘Scudo Crociato’ ad infuocare una contesa amministrativa alla fine degli anni ‘60. Era accaduto che il prof. Cenatiempo fosse segretario politico della DC baranese e, in contrasto con Giovanni Di Meglio volle presentare una sua lista ed avendone titolo si recò di buon mattino alla sede provinciale del partito per farsi consegnare il simbolo che di per sé valeva già il dieci per cento dei suffragi elettorali. Dopo ricorsi, minacce e vendette trasversali si arrivò alle elezioni. Per deridere gli avversari, che dovettero precipitosamente ricorre al simbolo della Torre, il candidato prof. Giuseppe Agostino, in un comizio nella gremitissima piazza baranese, accusò gli avversari di essere ricorsi ‘ad un simbolo agnostico’. Bei tempi: bastava dire una parola difficile per far scatenare applausi scroscianti. Forio tra i sei Comuni isolani era quello più politicizzato. Vive ed attive erano le sezioni democristiane, socialdemocratiche, socialiste e comuniste. La sinistra trovava terreno fecondo in quella porzione di territorio dominato dalla figura carismatica del democristiano sindaco Giovanni Mazzella. Ed i comizi fino alla metà degli anni ‘70 erano vissuti come autentiche kermesse. Il maestro Caruso dominava la zona panzese in rappresentanza dei missini e non lasciava accostare nessuno nel suo feudo. Dai palchi, con contraddittorio e non, volavano insulti e paroloni e, quando un incauto socialdemocratico lanciò ombre oscure sulla sua famiglia, Caruso si tramutò nel fiero Farinata chiedendogli “Chi fur li maggior tui?”, lasciando intendere di sapere molte cose della madre e della sorella dell’incauto contrappositore. A Casamicciola, Lacco e Serrara spadroneggiarono per circa un trentennio Castagna, Mennella e Carlino Mattera. Tutto sommato, tranne che per la contrapposizione tra le singole frazioni ed il momento topico delle elezioni la via amministrativa si svolgeva senza particolari punte di asperità. Ischia già da allora era un mondo a se stante. La scena politica vedeva il dominio di Vincenzo Telese che, o con liste civiche o con il simbolo democristiano dominò lo scenario politico ischitano fino alla vigilia delle elezioni del 1970. ‘Coequipiers’ fino al 1977 furono di volta in volta l’avv. Umberto Di Meglio e l’avv. Vincenzo Romolo che indossarono la fascia di primi cittadini per un paio di mandati. I comizi erano accesi perché le personalità politiche erano di buona levatura. L’opposizione la incarnò l’avv. Onorato le cui filippiche fendevano i fischi ed i tumulti che gli avversari gli rovesciavano addosso. Ma vi erano anche buoni amministratori con una gran verve scenica: Giannino Messina era uno di questi. Ricordo un comizio nel Borgo dei Gelsi durante il quale Giannino convinse un riottoso candidato, il collocatore Giovanni Califano, a prendere la parola. Spinto davanti ai microfoni e con la gola rinsecchita, il buon Califano assunse il tono stentoreo dei tribuni. Ma aveva poco da dire perché la favella non era il suo forte, per cui iniziò e concluse il discorso rapidamente: “Saluto i concittadini di Ischia Ponte, un particolare saluto al nostro patrono San Giovan Giuseppe della Croce (rivolgendosi indietro chiese un bicchiere d’acqua, alcuni pensavano che il fatto andasse per le lunghe ed invece fu mozzato da un perentorio) viva la Democrazia Cristiana, viva Ischia e viva l’Italia”. I comizi erano affollati dalle opposte tifoserie che si spostavano da una parte all’altra del territorio per ascoltare le risposte che gli oratori dovevano agli attacchi ricevuti: insomma, un andirivieni preceduto dalle staffette che, succintamente, riassumevano quello che avevano ascoltato. Un tempo magico che, al di là di facinorosi ed attaccabrighe, metteva in campo amministratori selezionati da un’intensa attività di partito. Insomma, uomini politici di caratura superiore che dovevano guadagnarsi la pagnotta della rappresentatività attraverso una intensa attività di interlocuzione. Alla cultura dei manifesti si è sostituita quella dell’immagine televisiva. Un bene solo per il fatto che si imbrattano meno spazi e si risparmia carta. Ma il pathos dov’è? Mi soccorre Francesco De Sanctis che sulla poetica della Divina Commedia sosteneva che con l’Inferno buona parte della poesia se ne va. E così la politica, venuta a mancare la virile e sanguigna contrapposizione, è ridotta ad una passerella od a un concorso di bellezza, che potrebbero anche starci se il background dei candidati fosse di sostanza. Essere oltreché apparire.