Cita poeti greci, scrive libri da 900 pagine, parla di digitale: non sarà lei stesso una persona “analogica”, per adoperare una sua categoria, quanto meno per ragioni anagrafiche?
Sicuramente lo sono, lo dico con rammarico e anche con soddisfazione: essendo nato nel 1938 e Twitter 3 anni fa, quindi non posso che essere a cavallo fra i due mondi; il rammarico è costituito dal fatto che non riuscirò a impadronirmi di questi strumenti come chi ci è nato insieme. La soddisfazione viene dal fatto che, avendo visto il prima ed il dopo, so apprezzare molto meglio la digitalizzazione. Ma, essere analogici o digitali non significa solo avere più o meno dimestichezza con l’informatica, implica una mentalità: l’analogico ha paura di tutto, dell’innovazione, della tecnologia, ma anche dei gay, degli stranieri.
Perché la persona analogica ha queste paure, mentre le personalità di tipo digitale sono più aperte al nuovo? Di fronte alle novità ci sono due tipi di atteggiamento che appartengono al dna di ciascuno: o avere una forte attrazione per il nuovo e l’ignoto, quello che chiamo lo “spirito di Ulisse”, oppure di provare una fortissima paura per ciò che non si conosce, l’analogico è anagraficamente più portato alla prudenza che non all’avventura. L’analogico per non essere chiuso deve fare grandi sforzi, mentre il digitale per essere riflessivo deve fare grandi sforzi.
L’essere umano è all’altezza dei cambiamenti che egli stesso produce?
Le società hanno sempre avuto delle “punte” che inducono al cambiamento, scienziati, tecnologi, grandi poeti, visionari, umanitari che per primi hanno visto i mutamenti ed hanno operato per attuarli, poi arrivano tutti gli altri. Però mentre l’energia elettrica, da quando si sono realizzati i primi impianti, in Italia ha impiegato più di 70 anni a diffondersi, oggi innovazioni come Facebook o Twitter hanno preso piede con enorme rapidità.
Lei sostiene che la nostra epoca soffre di una mancanza di grandi personaggi, di leader. I leader sono stati sostituiti, in certi ambiti, dai grandi gruppi: oggi al posto di singole figure eccezionali di scienziati per esempio, come Galilei o Newton, ci sono strutture come il CERN in cui lavorano migliaia di persone, si è passati, cioè, dalla creatività individuale, che sopravvive anche se con dei distinguo, in pochi ambiti, come la pittura, la poesia, a quella di gruppo. Tuttavia, mentre un gruppo può compiere una scoperta scientifica o realizzare una costruzione architettonica, è difficile trovare gruppi che creano grandi ideologie, grandi sistemi. Queste categorie vengono fuori, sia pure per sedimentazioni successive, da un personaggio che ha sintetizzato il sentire di un’epoca e ne ha fatto un modello teorico, creando una visione coerente e sistemica di società. Questo è avvenuto, per esempio, con Gesù Cristo per il cristianesimo, Lutero e Calvino per il protestantesimo, Smith e Montesquieu per il concetto di Stato liberale: ebbene, oggi se mi guardo intorno non trovo l’equivalente di Toqueville, Marx, Guicciardini o Machiavelli. Questo comporta che i leader politici sono senza un viatico, un tracciato a cui ispirare le proprie azioni. Quando Cavour fece l’Italia, aveva addirittura delle “mappe” alternative alla propria, quella di Cattaneo, Gioberti, Mazzini, Beccarla e sulla base di quel pensiero in dieci anni ha unificato l’Italia: oggi, Obama o Putin o Renzi non hanno a disposizione figure che li aiutino a tracciare la via.
Uno dei concetti che lei a identificato come portante della società contemporanea è quello dell’ozio creativo: cosa si “cela” dietro questa solo apparente contraddizione in termini?
E’ la capacità di compiere delle attività in cui coincidono studi, lavoro e gioco: quando avviene e avviene solo nel caso del lavoro intellettuale, lo definisco “ozio creativo”. La verità è che usare un solo termine “lavoro” per definire attività molto differenti è una nostra deficienza: un metalmeccanico, un minatore, un giornalista, un professore, un poeta lavorano tutti, e si decide che devono andare tutti in pensione lo stesso giorno, ma è una follia. Si discute in questo periodo dell’età pensionabile dei professori universitari: negli USA un professore va in pensione quando lui lo vuole e la sua Università decide che non ne ha più bisogno, da noi invece ci devono andare tutti in un momento prestabilito, per cui anche un grande pensatore o un grande scienziato deve abbandonare a 65/70 anni, magari quando è nella pienezza delle sue capacità intellettuali e del suo sapere.
Abbiamo in questo momento un “grande vecchio” che sta lavorando per tutti noi, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: quindi lei trova giusto, addirittura funzionale, che una persona così anziana occupi un ruolo tanto importante per il nostro Paese?
Ho dedicato tre libri alla creatività, siccome credo che in politica ne occorra e la creatività non ha età: per esempio, Mozart ha iniziato a comporre musica a 4 anni ed è morto a 36, mentre Tomasi di Lampedusa, l’autore de Il Gattopardo, ha iniziato a scrivere a sessant’anni: ci sono persone che a età avanzatissime hanno fatto cose molto moderne per la loro epoca, per esempio Michelangelo che a 60 anni ha scolpito I Prigioni e ha fatto la cupola di S. Pietro quando ne aveva 72, mentre Rossini prima dei 40 anni aveva già scritto praticamente tutte le sue opere ed è morto a 72; Rimbaud a 19 anni ha scritto la sua ultima poesia ed è morto intorno ai 50. Insomma, non ci sono assolutamente regole, si può essere vecchissimi e avere la mente molto lucida. Naturalmente, Napolitano è un analogico e tutta una serie di sue esternazioni lo rivela.
Non sarà che il trionfo della democrazia risiede, appunto, nell’avere un Presidente della Repubblica novantenne analogico ed un presidente del Consiglio neppure quarantenne che definirei sicuramente digitale?
Non c’è dubbio. Ho letto un articolo in cui si individuavano i referenti ideologici di Renzi, ebbene vanno da Giorgio La Pira a Briatore, dalla Fiorentina alla Nutella, insomma un pot pourri di questo genere, ma questo è tipico della società postmoderna; se chiedessimo a Putin o ad Obama dei loro referenti ideologici, verrebbero fuori cose dello stesso genere.
Allora, possiamo sintetizzare la società contemporanea con la formula: molta informazione e poca cultura?
Non direi poca cultura, quanto piuttosto assenza di un modello. Ciò che trasforma l’informazione in cultura è un modello, che consente alle informazioni di comporsi in un sistema coerente, finché ciò non avviene si tratta di frammenti e non di cultura. Sicuramente Giorgio Napolitano ha dei referenti come Marx, Gramsci, Croce, Toqueville, sicuramente, essendo un analogico ha punti di riferimento più forti, e avere punti di riferimento solidi finora è stato considerato quasi un handicap dai digitali e dalla cultura postmoderna. Tuttavia, da qualche anno c’è un ritorno alla necessità di avere un modello, e ho dedicato un libro proprio a questo. Il postmoderno dice che è possibile solo una visione frammentaria e che prevarrà sempre una compresenza di opposti (dentro e fuori, vecchio e nuovo) a discapito di una visione unitaria, complessa e sistemica. L’assenza di modello comporta che si è infranta quella dicotomia fra l’intellettuale che i modelli li fornisce e il capo di Stato, il politico che li realizza, per cui il politico non sa che modello attuare.
Dai principi che muovono il fare politico alla fine delle ideologie, dalla vertiginosa rapidità con cui il modo di comunicare sta evol- vendo alla drammatica perdita di figure carismatiche, dal concetto di ozio creativo al ruolo dei grandi vecchi, uno dei più famosi sociologi italiani, Domenico De Masi, che ha trascorso a Ischia qualche giorno di vacanza, si fa intervistare a tutto campo su alcuni temi fondamentali della contemporaneità.
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