INTERPRETA IL CARDINAL VOIELLO, CHE TESSE TRAME INTORNO AL NUOVO PAPA NORDAMERICANO, IN THE YOUNG POPE, L’ULTIMO LAVORO DEL PREMIO OSCAR PAOLO SORRENTINO, MINISERIE TV AMBIENTATA IN VATICANO CON UN CAST DI STAR INTERNAZIONALI, APPENA PRESENTATA ALLA MOSTRA DI VENEZIA.
Text_ Gianluca Castagna
Sul grande schermo il napoletano Silvio Orlando è arrivato relativamente tardi. A quasi trent’anni, con un piccolo ruolo in “Kamikazen – Ultima notte a Milano”, secondo film di Gabriele Salvatores, dopo aver seguito tutta la trafila dell’attore di provincia: tirocinio “creativo” nelle cantine, esordi nei teatri partenopei, trasferimento a Milano e l’esperienza con il teatro dell’Elfo. Viso tranquillo e un po’ innocuo, espressione timida e paciosa, inconfondibile accento meridionale, Silvio Orlando sembrava destinato a una carriera da caratterista, una di quelle spalle regionali che a suo tempo fecero grande la commedia all’italiana. E’ invece diventato uno dei volti più rappresentativi del nostro cinema d’autore, interprete dalla recitazione sobria e misurata, amato da tutti i registi della sua generazione, che spesso gli hanno regalato ruoli malinconici o da perdente. Solo che, a furia di farli, film dopo film, è riuscito a diventare un vincente. Sono tanti i personaggi memorabili a cui ha dato vita negli ultimi 30 anni di cinema italiano: il professore idealista contrapposto al politico senza scrupoli ne “Il portaborse” di Daniele Lucchetti; il dentista perso per una ragazza dell’est di “Un’altra vita” di Carlo Mazzacurati; l’intellettuale di sinistra, buonista e inconcludente, in “Ferie d’agosto” di Paolo Virzì; lo strozzino cinico e impietoso in “Luce dei miei occhi” di Giuseppe Piccioni; soprattutto il genitore sensibile che resta accanto alla figlia, pazza e assassina, in “Il papà di Giovanna” di Pupi Avati, con il quale vince la Coppa Volpi come migliore attore alla Mostra del cinema di Venezia.
Ischiacity ha incontrato Silvio Orlando all’Ischia Film Festival («il festival di cinema più bello del mondo», lo ha definito l’attore) per la presentazione di “Un paese quasi perfetto”, storia di un paesino della Basilicata in estinzione, i cui abitanti cercano di convincere un medico milanese a rimanere, e favorire così l’apertura di una fabbrica.
Cosa ci fa Silvio Orlando in un paese quasi perfetto?
Sono un sindaco farlocco, prendo il posto di quello vero che si è dato alla fuga e tento di tirare fuori quattro disgraziati dalla crisi economica, e soprattutto umana, nella quale sono precipitati.
Lei vive a Roma. Cosa farebbe se fosse il sindaco? Diamo due consigli alla Raggi.
Che ho fatto di male per meritare questo? E’ impossibile governare una città di quattro milioni di abitanti. Roma è costruita male, paghiamo lo scotto di uno sviluppo edilizio folle, quartieri ghetto che non potevano produrre altro che emarginazione, degrado e violenza. Comincerei da lì, facendo il sindaco delle borgate.
Dopo 20 anni è tornato a teatro con “La scuola” tratto da Domenico Starnone per la regia di Andrea Luchetti. Cos’è cambiato in 20 anni, se è cambiato qualcosa?
Si è solo radicalizzato tutto, compresa la tendenza a creare delle classi particolari, con studenti sempre più problematici, più distanti, umanamente, dai loro insegnanti. La scuola si modifica nel tempo, ma non cambia la propria essenza. Alla fine, le domande che i professori si pongono sono sempre le stesse e spesso non hanno risposta.
Un processo irreversibile?
Non so se è irreversibile, mi sembra una semplificazione dello stare assieme. Oggi un borghese e un proletario non si devono più incontrare, mentre una volta la scuola metteva in comunicazione sensibilità e storie diverse. La povertà puzza, crea disagio e problemi. La cosa più facile è dire: vi facciamo un quartiere tutto per voi, una scuola o una classe tutta vostra. Vi diamo un sussidio, basta che non rompete le scatole.
Un professore “particolare”: il coach di pallanuoto in “Palombella rossa” di Moretti. Che ricordo ha di quel film?
E’ stato l’inizio di tutto. Il primo film importante e l’incontro decisivo con Nanni. Pensavo quello fosse il cinema, una dimensione davvero surreale. Invece – per fortuna – era solo il suo cinema. Come coach e atleta ero improbabile, ammettiamolo. Di pallanuoto non sapevo niente, dicevo cose di cui non coglievo il senso, era Nanni a darmi continuamente dei fogliettini e io ripetevo frasi di cui non capivo nulla. Però ha funzionato.
Moretti è davvero così esigente? Quanto riesce a ottenere da un attore?
Nanni è un pazzo, nel senso vero del termine (Ndr. ride). Devi capire quello che ti dice e vuole da te, uno sforzo di idee continuo per ottenere il meglio. Per un attore diventa uno stimolo formidabile, mi preoccupano di più quelli che “buona la prima”. Non mi piacciono i fenomeni, mi fanno star male. Nanni, in verità, ha un modo di fare cinema molto umile. Parte da un limite di se stesso, che conosce molto bene, e lavora su quello.
Carlo Mazzacurati, altro regista da lei molto amato e scomparso di recente.
Carlo era la persona più divertente che ho conosciuto, in questo mondo. Un senso straordinario dell’umorismo, un affabulatore padano, di quelli da osteria, che si mettono lì a raccontarti storie e ti fanno morire dalle risate. Un dittatore buono, tenero, estenuante anche lui, ma con una grazia leggera malgrado i suoi 120 chili. La sua scomparsa ha lasciato un grandissimo vuoto in questo ambiente, credo che il suo cinema sia una delle poche cose che davvero rimarranno tra venti o trent’anni.
Con Paolo Sorrentino ha appena finito di girare un serial tv internazionale, “Il giovane Papa”, nel quale è un cardinale.
Non un cardinale, ma il cardinale. Il segretario di Stato che comanda su tutti gli altri. Set complicato, faticoso, difficile divertirsi. Con Sorrentino il rapporto è stato ottimo, una volta accettate le sue regole. Più di un decalogo, a dire il vero, compreso non fare troppe domande. In passato avevo già affrontato altri provini per film internazionali, ma erano piccoli ruoli, morivano subito. Questo è un progetto importante, e lo considero italiano, malgrado tutto. Il ruolo è enorme, sono contento che Paolo me l’abbia affidato permettendomi di misurarmi con la difficoltà della lingua e con miti della mia giovinezza come Diane Keaton.
Indimenticabile Annie Hall per Woody Allen.
Un’attrice che ho amato molto. Una donna bellissima sfiorata da un brutto come Woody Allen. Ci identificavamo subito…
Lei ha lavorato sulle opere teatrali di Eduardo e Peppino De Filippo. Cosa deve possedere un attore per interpretare un testo di Eduardo?
Quelli della nostra generazione hanno sempre avuto un po’ paura di confrontarsi con il teatro di Eduardo. Un’eredità troppo pesante: il primo drammaturgo, la napoletanità, le aspettative. E poi ci sono le ‘istruzioni per l’uso’ nelle registrazioni televisive. Le opere di Shakespeare non sappiamo in che modo venissero messe in scena; Eduardo ci ha lasciato queste videocassette che rischiano di far apparire chiunque come un traditore. A me non piacciono le letture troppo intellettualistiche del suo teatro. Bisognerebbe finirla di usarlo come un pretesto. Era un magnifico costruttore di macchine sceniche, possedeva l’alchimia segreta del teatro, quindi il più delle volte basta inserire la chiave e si parte. Senza pensarci troppo, altrimenti diventi imitativo. Perché, per un attore, ci vogliono almeno sei gradi di separazione rispetto al prototipo. Nel 2017, vorrei portare in scena “Napoli Milionaria”, ma sono tanti gli attori napoletani, bravissimi, che possono cimentarsi con il suo teatro senza imitarlo.
Ha dichiarato: “l’attore puro non esiste più, vogliono tutti fare qualcos’altro”. Cosa?
Viviamo una situazione asfittica, il mercato italiano si è ridotto, sembra quasi che tu voglia fare il verso a te stesso. Diventi una presenza ingombrante. Ti vedono in giro e dicono: ancora lui? A un certo punto tutti pensano a qualcos’altro: diventare regista, sceneggiatore, dedicarsi ad altre forme di espressione. Penso, al contrario, che il mestiere dell’attore possa essere infinito se si fanno le scelte giuste.
Quindi la regia non è più tra i suoi interessi.
Non credo di avere la struttura mentale per fare il regista. Non è una questione di ispirazione, ma di metodo. Se uno fa l’attore, è la cosa che non deve avere. Quando l’attore ha un metodo, e prima o poi si vede, diventa prevedibile. Sono due strade schizofreniche.