n.02/2005
Photo: Archivio Buchner
Text: Riccardo Sepe Visconti
“ ‘Na crasta co´ ‘a scritta!”
Intervista a Giosuè Ballirano: lacchese, fu per oltre trent´anni al fianco di Buchner come caposquadra sugli scavi, custode e factotum, in un rapporto di reciproca stima, rispetto e affetto.
R.: Come ha conosciuto Giorgio Buchner?
G.: Era ancora viva la madre del dottore e il marito Paolo, lavoravo a Ischia nel loro terreno. Seguì un periodo nel quale per molti mesi loro andarono a Giava, io dovevo abitare lì, per occuparmi del cane e dei gatti, andare a fare la spesa, cucinare e dormivo anche lì, lasciando da sola a Lacco mia moglie e i miei figli. Così ho conosciuto la famiglia Buchner. Anni dopo fecero un campo sportivo a S. Montano e uscirono alcune cose antiche, il dottore già sapeva… Nel ´52 ho cominciato a lavorare a tempo pieno con il dottor Giorgio; un giorno la madre mi disse: “Ho due figli, Giorgio e Giosuè”. Col dottore eravamo molto affezionati, quello che dicevo io era quello che diceva lui e il contrario, eravamo come due fratelli, in tanti anni di lavoro insieme non ho mai avuto un rimprovero, non gli è mai sfuggita una parolaccia… Mai, sempre calmo! Una persona che mi ha dato tante di quelle soddisfazioni nella vita… Sono andato con lui anche a Roma per portare oggetti per una mostra all´Accademia dei Lincei.
R.: Ci racconti qualcosa del primo scavo insieme.
G.: Il primo scavo non fu a S. Montano, ma a Monte Vico, la collina soprastante, in una proprietà privata e ricordo che la Capitaneria di Porto ci fece dei problemi perché buttavamo in mare la terra scavata e dissero che sporcavamo l´acqua.
R.: Lei per chi lavorava, per la Soprintendenza o per il dottor Buchner?
G.: All´inizio mi pagava lui, con i suoi soldi; anche per gli scavi i finanziamenti sono stati sempre pochi, li ha chiesti in giro, talvolta lo ha aiutato anche il padre con la sua pensione. Io facevo tutto, il magazziniere, il capo operaio, il dottore progettava già da allora di fare il museo, a S. Montano, e mi disse ‘tu sarai il custode, ti metterai alla porta con il berretto in testa´: io ero contentissimo all´idea. Nel ´64 mi costruii una casetta e lui mi disse: ‘Adesso non vorrai stare più qui´, ma io volevo continuare.
R.: Torniamo al racconto di come funzionava lo scavo.
G.: Quando si scavava il dottore doveva essere sempre presente: nella valle di S. Montano la necropoli sta dappertutto, senza limite, il primo taglio lo facemmo dove ora c´è il parcheggio e poi in altri punti della valle. Lui veniva la sera, dopo il lavoro in Soprintendenza, prima ancora di andare a casa: quando capì che io e Peppino [ndr: l´altro operaio, sig. Giuseppe Simonelli] gli facevamo trovare tutto in ordine si fidò di noi; dette a me le chiavi che non aveva dato a nessuno, degli scavi di S. Montano e Mazzola e del deposito, aveva acquistato una fiducia enorme, quello che dicevo io era sacrosanto, quello che dicevo io e quello che diceva lui era una cosa sola, mi ha voluto troppo bene…
R.: Era un lavoro faticoso?
G.: Faticoso non era. Gli strati superiori di terreno li toglievamo con i picconi e anche con qualche piccolo mezzo meccanico, poi quando mancava un mezzo metro-un metro di terra al primo livello antico si fermava tutto e si puliva lentamente, per delle giornate, finché non si trovavano i primi tumuli e lì il lavoro diventava complicato perché erano uno sull´altro e si stava parecchio su ogni tomba scoperta.
R.: Un lavoro di grande pazienza, quindi.
G.: Sì, di grande pazienza. Abbiamo consumato un sacco di pennelli, pennellini, stuzzicadenti, scatole di ogni dimensione. Si puliva il terreno finché non iniziavamo a vedere dov´era la tomba, o meglio la vedevamo noi che eravamo già abituati, non gli altri, la individuavamo perché il colore del terreno era diverso, piano piano cominciavano a venir fuori parti dello scheletro, qualche ‘mummulella´, i vasi del corredo. Una volta trovata la tomba e il morto, avevamo imparato che il cadavere stava sempre con la testa verso il sole, sapevamo già dove erano posizionati la spilla, lo scarabeo, il sigillo, l´anello, gli orecchini: quindi appena avevamo trovato una parte del teschio, partivamo da lì, piano piano. Dalla bocca recuperavamo i denti, perché servivano a stabilire l´età. Una volta trovammo uno scheletro con degli anelli ai piedi… Quando era necessario tagliavamo piccole zolle di terreno intorno ai pezzi più delicati per recuperarli interi.
R.: Ha idea di quante tombe avete trovato?
G.: Probabilmente oltre mille.
R.: Cosa provava lei quando facevate questi ritrovamenti?
G.: Per me era una grande soddisfazione.
R.: Qual è lo scavo che ricorda con più soddisfazione?
G.: Sono stati tutti belli, ma sicuramente quello che ricordo di più è quello della coppa di Nestore.
R.: Chi ha avuto per primo in mano la coppa di Nestore?
G.: Il primo coccio della coppa di Nestore, che fu trovata in pezzi, l´ho avuto in mano io. A un certo punto dovemmo sospendere la campagna di scavo, ma continuavamo a lavare e ordinare i reperti scavati nel deposito di via S. Montano, dove portavamo il corredo delle singole tombe in cassette e passavamo giornate a pulirlo perché il disegnatore potesse fare i disegni. Io stavo lavando i cocci e il dottore mi aveva detto: ‘Giosuè. Fa´ attenzione, se vedi qualche scritta´. Un bel giorno mentre lavavo dissi: ‘Dottore, qua c´è una “crasta” con un “grafitto” vicino…´. Era il primo coccio della coppa di Nestore e uno dopo l´altro uscirono quasi tutti i pezzi del vaso. Nel posto dove l´avevamo trovata, l´anno dopo, setacciammo con il crivello tutta la terra, riuscendo a trovare tutti i frammenti tranne un pezzettino. A Forio c´era un professore che conosceva il greco e lui e il dottore decifrarono la scritta.
R.: Ci racconti del giorno dell´inaugurazione del Museo.
G.: Ho la fotografia di quel giorno, con il dottore e l´altro operaio Giuseppe Simonelli. Durante la cerimonia dell´inaugurazione eravamo tutti e tre alla tavola delle autorità: il dottore disse i nostri nomi e i nostri incarichi sul lavoro, caposquadra Ballirano e sottocapo Simonelli.
R.: Cosa diceva la gente del paese, gli amici, del lavoro che faceva con il dr. Buchner?
G.: Ci prendevano anche in giro, ci dicevano: ‘Lavorate col pennello?´ Oppure ‘Ah, stai cu ‘e crastulelle!´. Quando nel 1980 ci fu il terremoto andai al deposito di Mezzavia a controllare che nulla si fosse rotto e la gente mi disse ‘Sei andato a vedere ‘e crastulelle che facevano?´.
R.: Giosuè, non ha mai scavato con don Pietro, sotto la chiesa di S. Restituta?
G.: No, quando cominciammo a lavorare con Buchner, don Pietro ancora non aveva fatto nulla sotto la chiesa. Poi non ci sono andato per delicatezza, dopo che una volta, all´inizio dello scavo, don Pietro e anche il dottore mi dissero: ‘Vai a dare un´occhiata perché tu sei più esperto´. Io ci sono andato, fuori c´era un cumulo di terra, sono entrato in chiesa: c´era don Pietro in calzoncini corti vicino all´altare, ma non alzò neppure la testa per guardarmi in faccia… Da allora non sono più andato laggiù a vedere cosa ha fatto né come l´ha fatto.
R.: Siete rimasti in contatto, dopo che il dr. Buchner è andato in pensione?
G.: Sì, sempre. Quando una decina di anni fa uscì sul quotidiano Il Mattino un articolo che non raccontava come realmente fu trovata la coppa di Nestore, il dr. Buchner scrisse un altro articolo in cui spiegava i fatti, parlando anche di me e me ne diede una copia. Ho fatto il contadino, il soldato, il bagnino, ma il tratto di lavoro che ho fatto con il dottore, fra il 1952 e il 1985, 33 anni, è stato fondamentale per me.
Giosuè Ballirano è Caposquadra addetto agli scavi