n.02/2005
Photo: Archivio Buchner
Text: Fausto Zevi
Il giovane “Capufficio” del dr. Buchner
Fausto Zevi quale Soprintendente a Napoli dal 1977 al 1982 rivestì un ruolo fondamentale: fu il primo a stanziare un finanziamento dello Stato per gli scavi di Pithecusa, fino ad allora condotti con fondi privati.
Per me, come per altri della mia generazione, la grande occasione di conoscere Giorgio Buchner fu il Colloquio organizzato nel 1968, tra Napoli e Ischia, dai Dialoghi di Archeologia, la rivista cui R. Bianchi Bandinelli, maestro di molti di noi, aveva dato vita come un laboratorio aperto per i giovani; ma certo più difficilmente avremmo compreso la sua impresa senza il soggiorno in Grecia (un´esperienza che fu per noi quasi un tracciato esistenziale) e l´insegnamento nella Scuola di Atene di un altro grande maestro come Doro Levi (a organizzare il colloquio erano stati due giovani ispettori delle soprintendenze campane, B. d´Agostino e A. Gallina: non a caso due “ateniesi”). Nelle stanze del deposito archeologico di Mezzavia, un confronto intenso, come in una antica scuola intellettuale, tra e con maestri come Lepore, Vallet, Villard, Boardman, Zancani, lo stesso Buchner, e più giovani come Pelagatti, Johannowski, Morel, mentre attorno, sui tavoli, erano i corredi di S. Montano e i cocci dello scarico Gosetti, che Buchner illustrava con la semplicità del grande scienziato. Era in tutti la sensazione che quelle scoperte avessero condotto ad una nuova soglia di conoscenza, che non solo permetteva di rivisitare i vecchi trovamenti di Cuma ma costituiva il riferimento imprescindibile per la storia dei Greci in Italia. Pitecusa diveniva modello anche per la ricchezza di informazioni che la acribia dello scavo può ottenere dal terreno se sorretta dalla intelligenza e dalla cultura di un grande archeologo. Tuttavia, quella di Buchner si era configurata come un´impresa isolata e, pur con eccezioni, non sempre adeguatamente apprezzata dall´establishment accademico e burocratico. In quel 1968, ero ben lontano dall´immaginare che pochi anni dopo proprio a me sarebbe occorso di diventare Soprintendente di Napoli, e quindi di trovarmi, io molto più giovane, ad essere il “capufficio” di Giorgio Buchner. Il quale, ormai vicino alla pensione, con l´ufficio aveva avuto i rapporti sempre difficili e perfino conflittuali di uno scienziato “puro”, alieno dal quotidiano dispendio di energie nelle “pratiche” inerenti la funzione. L´isola, habitat ideale, lo proteggeva dal contatto con l´autorità, tutelando la sua indipendenza schiva, paga di una realtà scientifica creata con sacrifici anche personali e apprezzata all´estero forse più che in Italia. Ma così Giorgio era divenuto, anche per i più benevoli, un estraneo nella Soprintendenza, che non si faceva carico dei suoi lavori e dei mille problemi di uno scavo di tale complessità e ricchezza, fino alla sua presentazione al pubblico in una adeguata sede museale. Urgeva dunque risanare il rapporto prima che l´andata in pensione di Giorgio recidesse definitivamente i legami istituzionali, col rischio di mandar disperso un patrimonio di conoscenze e una ineguagliabile esperienza sul campo: la perdita forse più grave, perché diversamente dalla università le soprintendenze non sono organizzate didatticamente per trasmettere ai giovani il proprio sapere. Nel complesso quadro operativo della Soprintendenza napoletana, a Pithecusa doveva andare la priorità. Con Giorgio ci accordammo per un programma. Uno stanziamento, ricavato a fatica nel magrissimo bilancio, fu destinato a terminare lo scavo, sospeso da tanto, nella necropoli di S. Montano, ma con l´accordo che, in un serrato avvicendamento, una quindicina di giovani archeologi napoletani (oggi funzionari, soprintendenti, ricercatori) partecipassero alla campagna, onde fare tesoro di un´esperienza irripetibile; so per certo quale importanza quell´apprendistato abbia avuto nella loro preparazione, ma credo anche di poter dire quanto vivificante sia stato quel contatto per Buchner, finalmente riconosciuto per il maestro che era. E poi, il Museo. Quando ripenso a quella mattina di dicembre del 1977, rivivo la sensazione dell´inatteso scattare di meccanismi inafferrabili, quel coagularsi di circostanze che i Greci chiamavano il kairòs, personificazione cieca dell´attimo favorevole e fuggente, pronto, se non afferrato al passaggio, a dileguarsi e a vanificare le speranze. Ad Ischia, dove si teneva un convegno sull´ideologia funeraria antica, mi aveva accompagnato Nespoli, assessore alla Provincia, da me coinvolto nel problema del museo; con Buchner a Lacco incontrammo Mennella, un sindaco positivo e intelligente. Nel corso di una appassionata conversazione spuntò la notizia che i Rizzoli dismettevano le proprietà ischitane, compresa la Villa Arbusto di Angelo Rizzoli; immedia-tamente effettuammo un sopralluogo e subito apparve che, oltre alla bellezza senza confronto delle sue vedute e del suo parco, non poteva offrirsi sito migliore di quello, nel pieno cuore dell´insediamento greco, in vista dell´acropoli di Monte Vico e dell´approdo alla Baia di San Montano, adiacente il quartiere dei metallurghi di Mazzola, teatro delle più illuminanti scoperte di Buchner. Ci sarebbero voluti altri vent´anni per realizzarlo effettivamente, col lavoro, la tenacia, la capacità di autorità locali e di funzionari e soprintendenti; ma quel mattino aveva preso radice l´idea del Museo pitecusano che oggi magnificamente espone i risultati delle ricerche di Giorgio Buchner e che, come è giusto, ne porterà per sempre il nome. Restava la pubblicazione dello scavo. Quasi pronto era lo studio di quasi metà delle tombe scavate. Cercai di stringere i tempi, fornendo quanto ancora mancava e premendo su Giorgio perché completasse una impresa che tornava ad onore suo e della nostra scienza; il manoscritto era destinato ai Monumenti Antichi, la serie più prestigiosa della Accademia dei Lincei. Buchner resisteva all´imposizione di tempi non suoi; personalmente insistevo, temendo che si sarebbe finiti per non farne nulla. Alla fine credetti di averla spuntata: l´auto della Soprintendenza andò a Ischia a ritirare cartelle e faldoni, piante e disegni; io stesso consegnai il tutto all´Accademia. Ma non avevo calcolato la tenacia di Giorgio, e l´antica, complice amicizia di Donna Paola Zancani, che coordinava le pubblicazioni archeologiche dei Lincei; e il manoscritto consegnato tornò ben presto nelle mani dell´autore! Per fortuna i tre volumi di Pythekoussai I hanno poi visto la luce: grandiosa eredità scientifica dello scopritore di Pitecusa, ma anche testimonianza di uno spirito sempre lontano da ambizioni e esibizioni di qualsiasi natura, e capace, come sa solo chi possiede una autentica grandezza, di guardare all´essenza delle cose anche oltre i limiti della vita umana.
Fausto Zevi è Docente di Archeologia e Storia dell´Arte Greca e Romana all´Università La Sapienza di Roma