Text_ Pasquale Raicaldo Photo_ Archivio Famiglia Iovine
ANTICHE USANZE, RACCONTI DI FAMIGLIA, RITUALI IN CUI SI IDENTIFICAVA L’INTERO PAESE, MESCOLATI ALLE RICETTE DI PIATTI DI TRADIZIONE PER UN PICCOLO, “SQUISITO” LIBRO DEDICATO COL CUORE A PROCIDA, MA ANCHE UN PO’ A ISCHIA, DA GIOVANNI E LIBERA IOVINE, PIONIERI DELLA GRANDE RISTORAZIONE – IN ENTRAMBE LE ISOLE.
E’ bastato aprire una vecchia scatola e soffiare, per rimuovere quel sottile strato di polvere figlio dello scorrere del tempo. Le foto, poi, hanno iniziato a parlare, quasi da sole: una dopo l’altra. Bianco e nero e color seppia, storie e volti d’antan. Ed è proprio lì che è nata l’idea di “Storie e sapori di Procida”, il libro che Giovanni e Maria Iovine hanno pubblicato con Nutrimenti e che, corredato dalle ricette di Libera, moglie di Giovanni e già stella Michelin con il ristorante Il Melograno a Forio, racconta cibo e identità di due isole dalle antiche vicende intrecciate, talmente vicine da toccarsi quasi. “E’ vero, l’idea è nata proprio da quelle foto – conferma Giovanni, classe 1957, figlio di Ilario (detto Crescenzo) e Vincenza, antesignani della ristorazione procidana. Quegli scatti custoditi con cura hanno ispirato le storie, legate ai ricordi della nostra famiglia procidana. E così, con mia sorella Maria abbiamo riannodato il filo, ripercorrendo tanti momenti della nostra infanzia: dalla tonnara alla costruzione del ponte per Vivara, piccoli frammenti del passato che raccontano molto di quel che siamo oggi”. Operazione nostalgia? “Direi di no, piuttosto vogliamo tutelare e difendere l’identità, custodendo quel che ci rende unici: ricette e tradizioni, riti antichi e sapori. Riscoprire le nostre radici, anche attraverso i racconti consegnati a questo libro, significa rafforzare l’identità di Procida e di Ischia. Sarebbe un peccato dimenticarci – con la scomparsa delle vecchie generazioni – di quel che siamo stati”. Annuisce Libera, che lo affianca in un pomeriggio di dialoghi e ricordi. Insieme, hanno costruito il mito de Il Melograno, la prima stella Michelin a Ischia, realtà antesignana e pionieristica, in un certo senso, della cucina di grande qualità sull’isola: “Offrivamo identità, con un’attenzione alle materie prime, in tempi in cui non c’era ancora la moda della cucina gourmet e gli smartphone restavano in tasca, mica immortalavano i piatti prima di inaugurare la cena. Poi, siamo dovuti andare in pensione, si fa per dire. Io mi dedico al calcio, Libera ha le sue consulenze”. E poi c’è il libro, naturalmente, in cui si intrecciano racconti (scritti da Giovanni e Maria, da sempre appassionata di letteratura, suo anche “Antica sagacia procidana”) e ricette (marchio di fabbrica di Libera): ne viene fuori un gradevolissimo mosaico identitario che nutre spirito e corpo, rilancia l’espressività intramontabile del dialetto e recupera pagine del passato. “C’è la storia del pesce fujuto, per esempio – racconta Giovanni – al ritorno dalle uscite in mare, i pescatori facevano un cenno alle mogli, che li scorgevano all’orizzonte dai loro balconi. Se era andata male, in pentola sarebbero rimasti acqua, pomodori del piennolo, aglio e – senza il pesce, per l’appunto “fujuto”, scappato – uovo e pane raffermo tagliato a pezzi. Un piatto emblematico di un mondo e che, non casualmente, abbiamo riproposto con successo negli anni al Melograno”.
Odori e sapori s’impastano con i ricordi, il libro è una sinestesia. Impossibile leggerlo senza lasciarsi proiettare nelle atmosfere d’un tempo. Di quando, per esempio, mamma Vincenza “vendeva caramelle e biscotti e se arrivava qualche turista era pronta a cucinargli un piatto di spaghetti al pomodoro, un pesce al forno o una frittura, su qualche tavolo scalcagnato della Chiaiolella”. E di quando tutti guardavano con sincera ammirazione a quella barca, il Nautilus, bianca e azzurra: “La più bella e la più fortunata”.
Tra le pieghe del libro, spunta anche l’episodio della nascita di Giovanni. “Lo racconta mia sorella Maria: famiglia numerosa la nostra, i miei fratelli davano una mano al ristorante nato per rifocillare gli operai impegnati nella costruzione del ponte di Vivara. Ogni giorno pulivano chili e chili di cozze fangose. Lei, Maria, era l’addetta al vino. Vino del nonno, apprezzatissimo. Mentre i piloni del ponte affioravano tra le onde, la pancia di nostra mamma cresceva. Ironia della sorte, durante il grande pranzo organizzato per celebrare la fine dei lavori, papà mise in ghiaccio il vino più pregiato ma mamma era pallida. Nostro padre, racconta Maria, le chiese: ‘Ce la farai?’. E lei: ‘Sì, ma portami un po’ di vino’. Intendeva, naturalmente: ‘Ce la farai a far mangiare tutti prima di partorire?’. Pasta e cozze per tutti, poi merluzzi e calamari da friggere. E ancora: pesce al forno, polpette di alici, zuppa di pesce. Alla fine, mamma fece chiamare la levatrice. E all’ingegnere che chiedeva un piatto dei famosi spaghetti aglio e olio, rispose: ‘Sarà per un’altra volta, intanto bevete alla mia salute’. Il figlio nacque bello e grosso, e la levatrice disse: ‘Strano, odora di vino’. Sarei io – chiosa Giovanni – ed ecco spiegate tante cose”. Aneddoti saporiti, il gusto può essere quello delle mazzancolle giganti procidane al cartoccio o del tonno alla pizzaiola, qui è tutto rigorosamente “slow” anche se capita di imbattersi nel “Mac Libera”, che forse fa il verso alla catena industriale ma è, semplicemente, un burger di tonno. Rigorosamente nostrano. E ancora: manfredine di ragù di polpo verace e coniglio all’ischitana (ancorché procidani di nascita, sia Giovanni che Libera hanno chiare radici ischitane), zuppa di scuncilli e – immancabile – insalata di limone di pane procidano e acciughe. “C’è una riscoperta degli orti, a Ischia e Procida, e un’attenzione sempre più spiccata al chilometro zero”, annotano con orgoglio gli Iovine. Ma a rendere delizioso il libro sono soprattutto le fotografie. Quella di nonna Pasqua, per esempio, “dolcissima e generosa”, immortalata mentre filava e di sicuro raccontava le gesta di nonno Ciro, che raggiungeva Baia, dove lavorava, con “mitiche vogate a remi”. “Per sentire i racconti di nonna – ricorda Giovanni – e perderci negli aneddoti sulla fame nel dopoguerra, i sacrifici del nonno, le sue ataviche malattie superate senza lamentarsi, a turno poggiavamo i piedi sulla lamiera bucata della scatola di legno che conteneva il braciere, perché non c’era posto per tutti i nipoti. Nessuno di noi voleva perdersi una virgola, mentre lei filava senza soluzione di continuità”. C’è spazio per la tonnara di Ciraccio, attiva fino agli anni Cinquanta, e per la mitica nevicata procidana del 1956. Un capitolo a parte merita il culto del maiale, che si rinnova ancora in molte famiglie ischitane. “I miei ricordi – spiega Giovanni – sono aggrappati a una tribù iper-numerosa, che intorno al suo grande capo, Crescenzo “toro seduto”, partecipava al lavaggio e alla sezionatura delle mezzene. Al rito, invece, non potevano prender parte le donne con le mestruazioni. Il momento più atteso? La carne fritta: alle dieci del mattino, dopo ore di lavoro, colazione con fettina di sovraspalla fritta nella sugna tra due fette di pane di Boccia, e vista sul Castello”. Riti e miti, le isole raccontate attraverso il cibo e le tradizioni, con l’auspicio che l’identità non si sgretoli a colpi di globalizzazioni e talent-show televisivi. E che, anzi, tragga maggiore vigore dalla crescita esponenziale dell’attenzione per il food: “E’ anche una questione di moda, certo – spiega Libera – ma noi crediamo fortemente nella cucina come ambasciatrice di cultura e culture”. Storie e sapori, appunti, che poi diventano saperi. Da tramandare, di generazione in generazione. Anche con un libro, che profuma di isole.