Friday, November 22, 2024

n.08/2006

Photo: Riccardo Sepe Visconti
Text: Riccardo Sepe Visconti

 

La Gatta Cenerentola è un’opera geniale. Le opere dei geni – nel nostro caso il maestro Roberto De Simone – in genere si dividono in due grandi famiglie: quelle estremamente semplici, immediate che ti colpiscono all’istante e che si svelano subito per ciò che sono e quelle estremamente criptiche, che ti obbligano ad una profonda riflessione, che ti costringono a sezionarle in mille parti per capirne il messaggio in tutte le sue sfaccettature.
Orbene, la gatta Cenerentola è un capolavoro complesso e complicato, nel senso che ha in sé innumerevoli verità e significati e ciascuno di essi, per poter essere compreso a fondo, impone una lettura attenta, colta, paziente.
Tutta l’opera è costruita come una sciarada attraverso un gioco di specchi, di luci e di ombre: un labirinto perfetto nel quale una volta entrati, in realtà, non si può più trovare l’uscita.
Potrei fermarmi a queste parole poiché dopo tali affermazioni sembrerebbe superfluo o quantomeno beffardo condurre il lettore distratto oltre la soglia dell’ingresso per catturarlo in un gioco di rebus senza finale e dunque senza soluzione.
Ma se mi fermassi non servirei il sublime disegno del maestro De Simone e soprattutto mi dimostrerei buono di cuore, mentre chi mi conosce bene può testimoniare del mio cinismo.
Come ho già raccontato in un pezzo che scrissi per l’intervista a Peppe Barra, il primo – e fenomenale – interprete de “La gatta cenerentola” (Ischiacity n°6), alcuni passi di quest’opera teatrale mi colpirono a tal punto da inserirli nel programma di letteratura italiana che presentai alla prova degli esami di maturità all’epoca dei miei diciotto anni. Ho sempre molto amato “La Gatta” anche se, devo dirlo con onestà, probabilmente ho imparato a comprenderla a fondo – e mai abbastanza – solo in occasione di quest’ultimo articolo. Dunque quando la mia brillante redattrice Anna Schiano mi segnalò l’allestimento di una rielaborazione, a cura di un gruppo di entusiasti attori dilettanti di Serrara Fontana, decisi immediatamente di assistervi. In verità ero assai scettico sulla “confezione” e sulla riuscita dello spettacolo e fu per questa forma di prevenzione che tanto più crebbe il mio entusiasmo quando mi resi conto di quanto fosse bello (e immagino faticoso) il lavoro di messa in scena che Luigi Trofa ed i suoi amici sono riusciti a realizzare. La rappresentazione fu organizzata per quattro repliche in un teatro tenda allestito nella piazza di Fontana, in questo scorcio di inverno 2006. La piccola tenso-struttura fu per quattro notti gremita fino all’inverosimile da un pubblico divertito e soddisfatto. I ragazzi della “compagnia di Gigino Trofa” hanno confezionato davvero un piccolo gioiellino. Intervistandoli in seguito mi hanno raccontato delle tante serate passate insieme a costruire pezzo per pezzo la recita, di come l’entusiasmo li abbia coinvolti e uniti al punto di sacrificare tempo libero ed energie per provare e riprovare le parti sotto la pignola regia di Gigino. L’impegno nella recitazione è stato estremo per ciascuno di loro: i ruoli, da quelli più impegnativi a quelli più semplici, sono stati tutti interpretati con grande passione e abilità. Dall’istrionico personaggio de “la matrigna” perfettamente impersonato dallo stesso Gigino, alla passionale capo-lavandaia interpretata da Agnese Santo, e poi Michele Mattera nei panni della figlia prediletta Patrizia, e via via tutti gli altri… Bisogna dire che i ragazzi di Serrara Fontana hanno dato veramente una bella prova e ci auguriamo di vederli ancora in scena.

La Gatta Cenerentola si articola in 3 atti che contengono parti recitate e parti cantate. La scena principale è costituita dal cortile di un antico palazzo napoletano, di volta in volta luogo pubblico e privato. Ospita, infatti, la casa della matrigna (primo atto), un altare e una cancellata lo trasformano in una chiesa, dove si ambienta tutto il II atto; infine è un luogo di riunione aperto a tutti nell’ultimo.
L’ingresso della protagonista è preceduto da canti a una voce e di gruppo. Arriva poi Cenerentola che presenta la propria condizione, seguita dalla matrigna che si prepara per il ballo alla corte del re cui intende andare con la figlia prediletta, Patrizia. La matrigna tratta Cenerentola in modo sprezzante mentre la fanciulla oscilla tra sottomissione e sarcasmo. Tutto l’atto contiene molti momenti umoristici, quando la donna si scontra con la pettinatrice e poi con la giovane sartina e naturalmente quando arrivano e si esibiscono le altre 5 sorelle, tutte uomini vestiti da donna. L’atto si chiude però, con una scena molto intensa: Cenerentola, dopo la partenza della matrigna e della sorellastra, è sola, prega e presto compare un gruppo di donne/uomini che cuce un lenzuolo funebre seguito dal munacello che la esorta a prendere la sua piantina fatata, grazie alla quale riceverà 3 abiti per recarsi a corte. Il secondo atto racconta, dal punto di vista di diversi personaggi, ciò che accade a palazzo. Innanzitutto il canto delle cameriere che servono i nobili convenuti; seguono 3 canti in cui Cenerentola è sola in scena, dietro la cancellata della chiesa e racconta, indossando appunto i 3 diversi, sontuosi abiti la sua storia al principe che, però, non compare mai. Durante la terza notte la fanciulla perde la nozione del tempo e lascia il palazzo troppo tardi: i soldati la braccano e deve impegnare una tarantella-duello con la matrigna prima di poter guadagnare la via di fuga. In tal modo perde la scarpetta che viene trionfalmente raccolta dalla punta della spada di uno dei soldati. L’ultimo atto vede in scena, dall’inizio alla fine, un gruppo di popolane, sono lavandaie che tante volte hanno fatto il loro duro lavoro in compagnia di Cenerentola e si ritrovano a commentare, in recitativo e col canto, il fatto che il principe sia come impazzito: deve trovare assolutamente la fanciulla che ha smarrito la scarpetta per farne sua moglie, o meglio la regina. Esse chiamano a gran voce Cenerentola che, pur unendosi a loro, appare distante rispetto ai fatti clamorosi che raccontano. Si unirà poi a loro in due scene distinte prima una zingara e poi il femminiello, che si uccide gettandosi nel pozzo. Più volte una tensione altissima pervade il gruppo di donne, fino all’arrivo dei soldati (francesi e spagnoli a simboleggiare le tante occupazioni subite dal popolo napoletano) portando come in processione la scarpetta: vogliono misurarla alle lavandaie ma si accoda subito la matrigna accompagnata dalla figlia Patrizia, certe che lei potrà indossarla. Nasce un frenetico, convulso scambio di ingiurie tra la prima lavandaia e la vecchia: le ferma il sopraggiungere della zingara che con molta semplicità dichiara che la scarpetta in realtà non l’ha persa nessuno perché appartiene a Cenerentola. La prova dimostra che questa è la verità, che il dramma si è in qualche modo ricomposto e quindi tutte insieme, matrigna e lavandaie, si accingono a giocare a tombola.

Interview: Riccardo Sepe Visconti
Per approfondire alcuni aspetti di quest’opera tanto complessa ne abbiamo parlato con Salvatore Ronga, creatore del Laboratorio Teatrale “Officina Arteteka”.
Come nasce “La gatta Cenerentola”?
È un melodramma e ne ha tutte le caratteristiche specifiche. Fu scritta da Roberto De Simone negli anni ’70, a partire da una favola riportata da Gianbattista Basile nel suo “Pentamerone”, scritto nel ‘600, ma non dimentichiamo che dietro la favola di Basile c’è un tessuto mitico che appartiene non solo alla storia precedente al suo ideatore, ma anche a quello che viene dopo nella tradizione napoletana, e De Simone gli ha dato ampio spazio, andando a raccogliere, in Città e nelle campagne della Campania le varianti della storia di Cenerentola.
L’autore è in primo luogo un compositore e si è interessato di musica e strumenti musicali legati alla tradizione popolare, tant’è vero che si fece insegnare da un grande maestro a suonare la tammorra. Voleva creare un’opera nuova che rompesse con il teatro borghese di Eduardo De Filippo, in cui non ci fosse spazio per il realismo perché per essere vero deve risultare tutto magnificamente finto. Nel teatro di quest’ultimo è impensabile che un maschio interpreti una donna perché, esso sì, si fonda sul naturalismo. De Simone ribalta completamente questa concezione, spezza la tradizione oleografica mettendo in campo una Napoli vera. Il capo comico nell’introduzione lancia proprio questo messaggio: adopera una lingua che definisce ‘tosta’, contro il parlato di De Filippo che è lingua italiana poggiata su di una sintassi napoletana.
Si rifà poi ad un Barocco che non è da ricercare in un periodo storico, ma piuttosto in una categoria dello spirito, un tratto della napoletanità. Anzi egli caratterizza i 3 atti con richiami a generi musicali ben diversi. Nel primo l’opera buffa, nel secondo la musica sacra e rinascimentale (e il palazzo del re diventa una chiesa); nel terzo atto infine con i personaggi della zingara e del femminiello c’è un richiamo al teatro di Viviani, per cui siamo completamente fuori dal Barocco e addirittura inserisce musica dodecafonica. L’artista evita così il rischio di fossilizzare anche musicalmente l’opera con un rimando ad un particolare momento storico e dà vita ad un’opera che, mescolando linguaggi e musiche antichi e attuali, parla a tutti noi anche oggi.
Cosa simboleggia Cenerentola?
È la donna che deve diventare padrona. Il fatto che sia definita Gatta, quindi si identifichi con un animale domestico vuole sottolineare il legame con la casa. Tutta l’opera allude di continuo alla contrapposizione tra universo femminile e maschile, che una forza terribile spinge a cercarsi ma anche a temersi, non a caso nella parte finale la zingara dice che per avere qualcosa di buono a questo mondo tutti gli uomini dovrebbero essere donne, o tutte le donne uomini o non ci dovrebbero essere né uomini né donne. In particolare la fiaba di Cenerentola contiene il momento del passaggio dal matriarcato al patriarcato, per cui ella deve necessariamente liberarsi della madre-matrigna che detiene il potere per poter divenire regina (cerca di ucciderla nel primo atto e nella fiaba lo fa davvero). Questa linea di successione non prevede la presenza del padre, che si trova in Sardegna, un luogo non scelto a caso e che nell’immaginario collettivo rappresentava il mondo dell’altrove. L’altro fulcro attorno a cui ruota tutta la storia è la scarpetta, simbolo della verginità femminile, creazione tutta maschile per controllare il grande potere delle donne (ricordiamo che il piede, e anche la scarpa, per la loro forma, hanno significati sessuali, e le lavandaie nel terzo atto vi alludono esplicitamente), a un certo punto Cenerentola deve perderla e però anche ritrovarla, quasi fossero dei passaggi obbligati.
In realtà il rito di passaggio, la metamorfosi, il mutamento di status sono temi che tornano…
Proprio così; alla fine del primo atto, che ci ha mostrato una Cenerentola almeno apparentemente remissiva, avviene uno dei cambiamenti fondamentali, ella si avvia a diventare da fanciulla moglie (più avanti dirà al principe: “Comme si fosse stata gatta pe’ ttant’anne e una sera ‘mpruvvisamente addeventa femmena…”), e per farlo affronta una morte simbolica. Per questo non parla, ma al suo posto è il capo coro, ovvero la voce oscura della ragazza, a dialogare col monacello. Alla morte di Cenerentola e alla necessità di morire per rinascere allude anche la pianticella fatata che, come avviene nei passaggi di stagione, perde le sue foglie per poterle poi rimettere. Il fatto che Cenerentola vada per tre volte al palazzo reale ogni volta con un abito diverso allude nuovamente al passaggio da una stagione ad un’altra.
Una delle caratteristiche immediatamente evidenti ne “La gatta Cenerentola” è che ruoli di donne sono interpretati da uomini (matrigna, 6 sorelle, alcune fra le figure che recitano il rosario…): perché?
E’ possibile individuare molteplici motivazioni per questa scelta dell’autore. Nelle note di regia, Roberto De Simone scrive che non ci deve essere da parte del pubblico un’immedesimazione nei personaggi, l’autore mira ad una rappresentazione fatta di segni piuttosto che di personaggi, tanto è vero che nei titoli di coda non si trova la dicitura ‘capera’ ad esempio, ma ‘ironia della capera’, il suo teatro non ricerca quindi il naturalismo e questo spiega anche il fatto che alcuni ruoli femminili sono interpretati da maschi. Inoltre “La gatta Cenerentola”, almeno per alcune parti, si richiama al teatro barocco, che è quello finto per eccellenza, nel quale alle donne era addirittura vietato l’accesso. Dal punto di vista antropologico, poi, si tratta di un’opera in cui dominano incontrastati i ruoli femminili e questo carattere è accresciuto dall’impiego di interpreti maschili.
In che modo, secondo te, De Simone ha sfruttato le potenzialità offerte da questa scelta?
Egli ha scritto le parti pensando a delle persone, a degli attori, gliele ha cucite addosso, tanto è vero che alcune sono affidate alle loro doti di improvvisazione. Il modo in cui Peppe Barra (nella prima versione dell’opera; poi il ruolo sarà affidato a Rino Marcelli) interpreta la matrigna non ha nulla di femminile: non modifica il timbro della voce quando recita, e tuttavia è un’interpretazione molto felice perché emerge il carattere maschile che è in quel personaggio femminile. Nel terzo atto, riprendendo Viviani, De Simone inserisce personaggi come il femminiello e la zingara, figure tradizionalmente ai margini della società, che all’interno della comunità napoletana sono accettate, ma solo fino ad un certo punto. Sono, cioè, portatori di segni e di messaggi forti, però allo stesso tempo, subiscono l’allontanamento. La zingara, ad esempio, è una sorta di deus ex machina che risolve la situazione (rivelando che la scarpetta appartiene a Cenerentola) ma rimane una figura non integrata, tant’è che ruba i panni alle lavandaie. Quanto al femminiello, non è casuale che alla fine della scena sia indotto al suicidio, dopo aver portato al paradosso, con il suo intervento, il tema centrale della fiaba, vale a dire la successione femminile da madre a figlia: egli si propone, infatti, come una donna mentre non potrà realmente essere madre e brandisce una bambola che incarna la figlia che non potrà mai avere.
Che ruolo hanno gli uomini in questo universo femminile?
Importante, anche se è sottolineato attraverso dei simboli. Il principe non compare mai in scena e nel terzo atto la lavandaia rimarca come in fondo chi a perso la scarpetta è una femmina, una di noi “che se po’ mettere sott’ ‘e piere ‘o rre e addeventa’ ‘a riggina ‘e stu popolo”. Tuttavia il maschile è onnipresente, attraverso il sole, che è un culto maschile fin dall’antichità e che poi nel cristianesimo diventa Dio Padre. L’opera si apre con un inno al sole, che scatena poi la possessione delle lavandaie e la reggia, dove risiede la figura maschile per eccellenza, che detiene il potere, è non casualmente rappresentata come una chiesa e le cameriere hanno abiti che si rifanno chiaramente a quelli delle religiose.