Sunday, November 24, 2024

Text_ Gemma Russo  Photo_ ICity Agency

“Perché poi proprio una stella a prua come marchio?” chiedo. “Pcché simm’ comunisti!” asserisce burbero.Sta in silenzio e, dopo alcuni minuti, tenero continua: “Perché non ci sta cosa più bella che le stelle in cielo! M’arricreo a guardarmele dal balcone di casa mia. Se tu vieni sulla Darsena a’sera, vedi là? Sì, proprio là! Ci sta una stella luminosa, la più luminosa di tutte che ti guida. È la stella della sera. Mentre si fa giorno, ne appare un’altra. È a’stella ‘ra matina! Quando sei a mare e da prua guardi le stelle, se punti a quella più luminosa sei sicuro che a’prua arriva sempre n’terra! Hai visto? Mi hai fatto dire pure perché il marchio di fabbrica dei Vallozzi è ‘na stella!”.

La bianca chiesetta e i palazzi del Rione Terra si specchiano nell’ormai magro bacino d’acqua che dà vita alla Darsena dei pescatori puteolani. È l’ora del tramonto, quella in cui le ultime barche tornano nel porticciolo al riparo. La bottega di don Antimo è chiusa. Sotto la tettoia, sistemata a mo’ di pergolato, ha lasciato una piccola barchetta cui sta lavorando, posizionata già per il mattino seguente, quando puntuale andrà a riaprire per rimettersi a lavoro. L’officina navale dei Vallozzi occupa quella parte di Darsena a ridosso della porta d’accesso al Rione Terra. Un tempo questo porticciolo era trafficato, popolato di genti, bucato steso al sole e barche fatte in legno. Era prima dell’avvento della vetroresina, quando le famose pozzolane, normalmente battenti le coste laziali e toscane, gli arcipelaghi del medio Tirreno e la lontana Sardegna, erano spesso romanticamente in disarmo sulla banchina. Tutto questo movimento oggi non c’è più, ma il tramonto regala a questo luogo una pellicola indissolubile e resistente nella quale il materico dissolto s’immagina, creando finissime velature trasparenti. Il colore scivola nella trama dorata del sole divenendo bagnato, arrivando ad avere effetti di luce e profondità difficili da ottenere, ammorbidendo le sfumature e potenziando il modellato del raro materico che l’occhio incontra. Era il 1939 quando Luigi Vallozzi fece una richiesta per costruire una piccola officina navale nei pressi dell’Assunta a Mare. Tale istanza fu accolta dal Demanio marittimo. Don Antimo aveva al tempo solo un anno di vita e non ha memoria di quella richiesta, ma ricorda nitidamente quando, con i suoi cinque fratelli, materialmente costruì il capannone di sei metri per dieci che ancora oggi accoglie alcune macchine utensili e le altre attrezzature necessarie alla lavorazione del legno. Era il 1956 e, durante quell’inverno, venti centimetri di neve coprirono la Darsena dei pescatori, rendendo l’incantevole paesaggio marinaro ancor più suggestivo. Hanno ereditato dal padre questa impresa artigiana, conferendole nuovo vigore e slancio negli anni ‘60 del Novecento. Luigi Vallozzi comprava pesce dai pescatori e lo rivendeva. Costruire barche non era tradizione di famiglia. Egli semplicemente le riparava, fino a quando decise di realizzarne una. Da allora in poi questa divenne l’attività dell’intera famiglia. Facevano barche senza disegno, ma, come dice don Antimo, “a cervello”. I disegni preparatori sono tradizione dei cantieri navali di Torre del Greco, non della zona flegrea dove ogni passaggio era frutto di un processo armonico e integrato di cui il maestro d’ascia aveva totale padronanza e controllo. È da vent’anni che l’officina non confeziona più una barca. Tutto iniziava con la creazione della chiglia e delle ordinate, i due elementi strutturali che davano l’impostazione. La prima era una trave posta sul fondo dell’imbarcazione e che correva per tutta la sua lunghezza. Una sorta di spina dorsale, intagliata e modellata con ascia e scalpelli, utilizzando legno di quercia, olmo, gelso e mogano, a seconda della disponibilità del mercato. La chiglia seguiva una linea curva, detta insellatura, agli estremi della quale poppa e prua erano poste più in alto rispetto al centro. La curva era concentrata nella parte anteriore della chiglia, detta ruota di prua, mentre la posteriore dava vita al dritto di poppa. Le ordinate erano fissate trasversalmente sull’asse longitudinale della chiglia con chiodatura zincata e create utilizzando sagome di diverse dimensioni, ponderate alla stazza dell’imbarcazione. La bottega le conserva ancora, in grande quantità e d’ogni misura. Sovrapponevano le sagome a tavole di legno, ne percorrevano con la matita i profili e tagliavano a mano o con i macchinari, ricorrendo spesso all’ascia per raggiungere la precisione. In questo modo era prodotta la nuova ordinata e di ordinata in ordinata, inchiodando queste alla chiglia, si dava forma all’imbarcazione. Don Antimo ancora oggi racconta di un anziano marinaio che diceva sempre: “Le barche devono avere delle belle forme, perché si devono guardare come le belle donne”. La forma acquistava concretezza con il fasciame, l’insieme delle tavole in legno, solitamente di pino, che costituiva il rivestimento esterno e interno dello scafo. Queste tavole prima dell’uso erano immerse in acqua bollente che, assorbita dal legno, lo rendeva elastico tanto da fargli assumere la piega desiderata. Quando tutto il fasciame era stato inchiodato, aveva inizio il processo di calafataggio, indispensabile affinché nella barca non entrasse l’acqua. Cavallo di battaglia dei fratelli Vallozzi erano i gozzi puteolani che differivano da quelli classici. Questi ultimi hanno la ruota di poppa e il dritto di prua rientranti, formanti un angolo acuto con la chiglia che è a sua volta quasi del tutto rettilinea, mentre quelli puteolani si caratterizzano per due tipi di prua: a martagana, senza albero di bompresso montato a prua, o a motonave. La prima era preferita dai pescatori di tramaglio per il maggior spazio che aveva sul castello di prua. Il gozzo puteolano rispetto a quello classico era più alto di circa un palmo e aveva un ultimo strato di fasciame al disopra della cosiddetta suola. Era al tempo un’imbarcazione stabile e veloce, nata dall’esperienza popolare e dal compromesso tra utilità e finezza. Il sottocastello di prua era aperto o all’occorrenza chiuso con uno sportello. La sacralità era data dalla vela latina, soppiantata dal motore. Don Antimo ha vissuto il passaggio: dalla vela latina al motore; dal legno alla vetroresina; dalla sua generazione ad alcuna generazione. Sì, perché non ha avuto ricambio. Suo padre ha messo il sapere nelle sue mani ed egli non ha fatto lo stesso con il proprio figlio. Non l’ha fatto per salvarlo. “Mica potevo insegnargli una cosa sapendo che sarebbe morto di fame. Doveva fare altro”, afferma convintamente. Sul punto in cui la falchetta incontra la ruota di prua, quando l’imbarcazione usciva dalla sapienza dei fratelli Vallozzi, veniva posta una piccola stella, marchio di fabbrica del cantiere navale, preghiera fatta alla Stella Maris del loro mare, la Madonna Assunta, affinché facesse sempre trovare la via della terra.

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