Friday, November 22, 2024

Text: Gianluca Castagna

 

 

Non è facile immaginare quale sarebbe stato il destino cinematografico di Valeria Bruni Tedeschi se i geni, la formazione e l’inconscio non le avessero regalato quell’espressione introversa, qualche volta malinconica, alla quale i ruoli interpretati di volta in volta hanno aggiunto il sale della follia, dell’angoscia, o la fatica – anche tragicomica – di costruire un rapporto pacifico con il mondo che la circonda.
Ci piace tanto, Valeria Bruni Tedeschi. Ci piace il modo (spudorato? incosciente? ironico?) con cui ha deciso di mettersi in gioco: rampolla di una ricca famiglia torinese che scappa in Francia per paura delle Brigate Rosse, sorella di una (ex) supertop model, Carla Bruni Sarkozy, (ancor più) celebre, attrice di fama internazionale che si divide tra l’Italia e la Francia, vezzosa fanciulla alle prese con tormenti interiori di chi sembra avere tutto dalla vita (o tanto, fate voi), che tuttavia mette in scena i dolori (veri!) di una donna che sbatte la testa contro il muro perché vuole di più.

Ci piace la sua immediatezza, anche selvatica, in rotta di collisione col blasonato pedigree: solitamente struccata, capelli messi un po’ così, una certa svagatezza, disponibile e schiva, pronta a raccontarsi, tra spunti anche grotteschi e divagazioni surreali, fino a quando non si supera un certo limite. Insomma, nessun divismo o quel tipo di altezzosità parigina che fai fatica a digerire.

Valeria Bruni Tedeschi fa parte di quella categoria di interpreti che, con la mobilità del volto, bello e imperfetto, prendono per mano lo spettatore e lo accompagnano nel labirinto del loro ruolo.

Inizia in sordina, dopo tante letture che – a un certo punto – pensa bene di vivere in scena e non fuori. Debutta con l’incandescente Patrice Chéreau, in “Hotel de France”, fine anni Ottanta. Nasce presto un rapporto d’amore-odio con la recitazione, in una spirale che ha del pirandelliano, in cui non si comprende mai fino in fondo se è lei a ricoprire un ruolo o il ruolo a ricoprire lei. Quando gira in Francia sogna l’Italia; frequentando i set di Bertolucci, Bellocchio, Olmi e Calopresti (con cui vince due David di Donatello come migliore attrice, nel 1996 con “La seconda volta”, nel 1998 con “La parola amore esiste”), ripensa al cinema francese così rispettato, sostenuto e difeso in patria.

Il premio César come miglior giovane attrice lo conquista grazie a “Le persone normali non hanno niente di eccezionale” di Laurence Ferreira Barbosa, mentre il grande successo di pubblico glielo regala François Ozon in “CinquePerDue – Frammenti di vita amorosa”, narrazione pinteriana sull’amore che muore nel matrimonio, dove Valeria è così bella e brava che sarebbe da sposare (se non la si amasse, chiaro).
L’attore è infantile, egocentrico, bisognoso di continue attenzioni. Il regista è più adulto, consapevole, guardingo. Tentiamo il salto? Lei tenta. “E’ più facile che un cammello”, “Actrices”, “Un castello in Italia”. Tappe di un cammino dietro la macchina da presa, per un lungo film personale senza eccessi autobiografici. Tante nevrosi (para)morettiane, accettabili e finanche divertenti solo perché non gravate dai soliti narcisismi strategici. Nell’ultimo titolo rievoca i ricordi dell’infanzia, la dimora di Castagneto da vendere, la fabbrica di famiglia già ceduta (si chiamava Ceat ed era la seconda produttrice di gomme dopo la Pirelli), una madre troppo intelligente e spiritosa da poter odiare, il fratello bellissimo e morto di Aids, l’ansia di una maternità a lungo inseguita. La sorella (nel frattempo) Premiere Dame? Non pervenuta.
E’ ancora l’Italia a regalarle due opportunità coi fiocchi. Ne “Il capitale umano”, ritratto spietato di una Brianza e di un Paese intero malati di megalomania e provincialismo firmato da Paolo Virzì, è un ex attrice rapita dal sogno di recuperare l’unico teatro cittadino che cade a pezzi, una donna ricca e infelice, sposata a una carogna capitalista, vittima di un’illusione e della nostalgia di un’avanguardia ormai morta. In “La pazza gioia”, ancora diretta da Virzì, tratteggia un personaggio memorabile: una Blanche DuBois de noartri, logorroica, estenuante, travolgente e senza freni. Adorabile e al contempo detestabile. Una ricca nobildonna alla ricerca di una costosa felicità (che “non si può certo trovare in un tramezzino”), pazza perché ha sprecato la sua irresistibile energia in fiumi d’alcool e di parole. A Ischia Global 2016, per questo ruolo, Valeria Bruni Tedeschi è stata premiata come migliore attrice dell’anno: il primo di una lunga serie di riconoscimenti per una prova da manuale.