Genni tortora, avvocato cassazionista, specializzato in diritto penale e procedura penale, docente universitario presso le scuole di specializzazione per le professioni legali dell’università Federico II di Napoli e presso l’università di Salerno, assistente di procedura penale del professor Furgiuele, è tra l’altro membro del collegio difensivo di due esponenti di primo piano della politica ischitana – il senatore Domenico De Siano, coordinatore in campania di Forza Italia e il sindaco PD del comune di ischia Giuseppe Ferrandino, primo dei non eletti all’Europarlamento. Appare, dunque, una voce autorevole per commentare, sia pure da “un’innegabile e ben chiara posizione”, il rapporto esistente fra l’amministrazione della giustizia e la politica territoriale dell’isola d’Ischia.
“Che cos’è la giustizia? Questa sembra essere una di quelle domande per le quali v’è la rassegnata consapevolezza che l’uomo non potrà mai trovare una risposta definitiva, ma potrà cercare di formulare meglio la domanda” ( Hans Kelsen, “ Che cos’è la Giustizia”).
E “cos’è la verità”? La definizione più antica la si può trovare in Platone, per il quale vero è il discorso «che dice gli enti come sono», falso «quello che dice come non sono» (Cratilo 385 b). Tale concetto sarebbe stato codificato da Aristotele nella celebre definizione della Metafisica (IV, 7, 1011 b) secondo cui «dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; dire di ciò che è che è, o di ciò che non è che non è, è vero». A questa definizione farà riferimento S. Tommaso con la concezione della verità come «adaequatio rei et intellectus».
La co-relazione fra verità e giustizia, intesa nel senso di poter giungere alla verità mediante la giustizia, è una operazione complessa; in altri termini, potremmo dire che è sbagliata l’equazione. Non sempre la giustizia corrisponde alla verità, non sempre ciò che è vero necessita di giustizia per esserlo.
La Società costruisce il proprio modello di verità sulla base di una sensibilità comune ai suoi cittadini, i quali riconoscono e distinguono i comportamenti leciti da quelli illeciti. Allo stesso modo la Società costruisce un proprio modello di accertamento della giustizia, il quale è funzionale alla validazione di una serie di norme penali sostanziali che sono la diretta espressione del sentire comune della società che le ha individuate. Di conseguenza, ogni società che individua i comportamenti leciti e li differenzia da quelli illeciti costruisce anche il modello necessario per l’accertamento e la validazione degli stessi.
Si comprende, pertanto, che la sensibilità di una società che connota illeciti taluni comportamenti e non altri costruisce un sistema in cui colloca in modo quasi chiaro il confine fra ciò che è possibile fare e ciò che non si deve fare. Riscontrare una verità valida per tutti, intesa quale espressione coerente di una regola di base comune ad ogni società, appare davvero impossibile.
Il ragionamento, senza ombra di dubbio semplicistico, diviene molto più complesso e forse anche incomprensibile per ognuno di noi quando si tenta di sovrapporre il concetto di verità a quello di giustizia; ossia, quando “ la sete di giustizia” rincorre un qualsivoglia segmento di verità, quando il tema centrale dell’accertamento giudiziale è sotto i riflettori dell’opinione pubblica. In tale contesto, le macroscopiche divergenze filosofiche e non solo, fra i concetti di verità e giustizia si smarriscono nell’oblio.
Basti pensare alla disputa riemersa – ma forse mai sopita – fra i due maggiori poteri dello Stato moderno di concezione illuministica, potere politico e potere giudiziario (ovvero fra politica e magistratura). Ebbene, è indubbio che il conflitto è sempre esistito e sempre esisterà, come forse è giusto che sia, specialmente in un paese che si fonda sulla dialogica del modo di intendere la società. Non può però sfuggire, all’attento osservatore, la circostanza che entrambi i poteri non possono essere portatori di una “verità assoluta ed incontrovertibile”. Ciò che appare incomprensibile, e lo ripeto per sgombrare il campo da ogni eventuale dubbio, nel conflitto fra politica e magistratura, che ritengo sia necessario per l‘equilibrio delle fondamenta della società democratica, è il labile confine che divide il perimetro di autonomia ed indipendenza che caratterizza entrambi i poteri ed il loro esclusivo esercizio. È storia dei nostri giorni il racconto delle dimissioni di un ministro della Repubblica italiana per il contenuto delle conversazioni – private – rese pubbliche e che hanno fatto gridare allo scandalo. Quale verità, quale giustizia? Eppure, in quel caso, l’opera di accertamento del fatto, nel caso specifico della ricerca di elementi probatori, si badi bene non della verità, ha influito tantissimo sul percorso di governo. Il ministro si è dimesso (scelta personale non opinabile, né censurabile), il ministero dello sviluppo economico ancor’oggi è scoperto. Cosa accadrà se poi tutto finirà con una sentenza di assoluzione? Di certo i danni alle persone (indagate e non) saranno irreparabili. Ed i danni arrecati all’esercizio dell’attività dell’esecutivo di governo? Possiamo sicuramente affermare, senza tanti dubbi, come l’esigenza spasmodica “di cercare una verità a tutti costi” e di “ identificare un colpevole” pur di soddisfare il sentimento di “verità e giustizia” a volte, ha dei costi troppo alti sia sotto il profilo umano, sia sotto il profilo dello spreco di risorse della società. Possiamo consentirlo, permettercelo? Eppure, è meglio esser chiari, un costo per tenere saldi i fili dell’equilibrio fra i poteri, dobbiamo metterlo in conto. Proviamo ad immaginare vicende a noi più vicine, l’arresto di un sindaco che nel tritacarne mediatico viene dipinto come il male assoluto il cui unico destino è quello di eclissarsi immediatamente e che per farlo debba anche sciogliere l’amministrazione che rappresentava, con la diretta conseguenza di creare un enorme vuoto politico, di lasciare le redini dell’amministrazione a Prefetti non sempre pronti a prendere decisioni importanti. Per poi scoprire in futuro che quel fatto, per cui fu privato della libertà, non sussisteva o che lo stesso amministratore non l’aveva commesso. Quale verità, quale giustizia? Proviamo ad immaginare le prerogative costituzionali, già ampiamente ridotte con l’eliminazione dell’autorizzazione a procedere, in capo ai membri del Parlamento, piegate da indagini strumentalizzate o per lo più non approfondite. Che sia ben chiaro, tutto è legittimo, anzi, affermo di più, doveroso! Il problema principale è nella ricerca di un punto di equilibrio in un conflitto fisiologico e necessario. Del resto, non possiamo in alcun modo sostenere che nella società in cui viviamo imperversino soggetti che possono delinquere senza che vi sia una immediata sanzione e senza che se ne conoscano i nomi.
Credo, forse, sia arrivato il momento di rendere più stabile il confine che demarca l’ambito di esercizio delle funzioni dei due poteri. Magari con un maggior rigore e rispetto nel riconoscere l’alto profilo di responsabilità delle rispettive funzioni. Tentando, anzi, sforzandoci, di operare una selezione critica e costruttiva nella formazione culturale che coinvolga ogni singolo cittadino tanto da riconoscere e distinguere il concetto di verità (che non può che appartenere alla sfera soggettiva) dalla confidata esigenza di giustizia indefettibile, al patto che il costo umano e sociale in caso di inconsapevoli errori non sia irreparabile.
Text_ Genni Tortora
Photo_ Ischiacity